Diritti / Attualità
Richiedenti asilo in Israele. L’illusione dei profughi in fuga
La storia di Mutasim Ali, il primo sudanese ad aver ottenuto lo status di rifugiato dal governo di Tel Aviv dopo esser stato detenuto nel deserto per 14 mesi. Eppure quella meta potrebbe evitare a migliaia di persone rotte pericolose
“Ero così felice, non credevo che sarebbe successo a me. Una delle ragioni per cui faccio parte di questa lotta è che ognuno di noi dovrebbe ottenere lo status di rifugiato. E so che accadrà perché ce lo meritiamo, è solo una questione di tempo”. Mutasim Ali è seduto a uno dei tavoli del suo caffè preferito, che lui definisce “il mio ufficio”. Siamo a Tel Aviv, tra il quartiere un po’ bohemien di Florentin e la stazione centrale degli autobus, una zona a Sud della città abitata soprattutto da studenti, migranti, artisti e attivisti. Ogni tanto qualcuno si ferma per salutarlo e lui stringe le mani a tutti sorridendo. Chiama le persone per nome e ha un’aria da leader senza ostentazioni. Ali è conosciuto in Israele come uno dei punti di riferimento per la comunità dei richiedenti asilo, e a giugno è diventato il primo sudanese a ottenere lo status di rifugiato dal governo israeliano.
Si tratta di una vittoria personale, ma anche di un passaggio che potrebbe avere un valore speciale per gli oltre 40mila richiedenti asilo arrivati qui passando dal lato egiziano del Sinai. In Israele infatti è praticamente impossibile riuscire ad ottenere lo status di rifugiato. Secondo “The Hotline for migrants and refugees”, l’organizzazione di Tel Aviv che da quasi vent’anni si batte per i diritti di migranti e richiedenti asilo, tra il luglio 2009 e l’agosto 2013 Israele ha “riconosciuto” appena lo 0,15% dei richiedenti asilo, la percentuale più bassa tra i Paesi occidentali.
Per bloccare l’arrivo di migliaia di africani, il governo israeliano ha eretto la barriera che corre lungo il confine con l’Egitto. I lavori sono terminati alla fine del 2012
Israele ha firmato la Convenzione del 1951 e nell’arco degli anni ha accolto gruppi di persone provenienti da aree di crisi: un centinaio di bosniaci negli anni Novanta, circa duecento vietnamiti arrivati negli anni Settanta, e nel 2007 è stato concesso di restare a 500 sudanesi in fuga dal genocidio del Darfur. Ma “credo che dal 1951 in poi, nonostante le migliaia di richieste singole, Israele abbia riconosciuto lo status di rifugiati a sei eritrei e forse otto etiopi”. Assaf Weitzen è l’avvocato di Mutasim Ali e lavora per “The Hotline”. Weitzen spiega che “verso la fine del 2005 gruppi di migranti hanno iniziato ad arrivare in Israele passando attraverso il confine con l’Egitto nel deserto del Sinai. Si trattava di persone confluite da diverse aree del mondo, ma la maggior parte erano eritrei e sudanesi”. Uomini e donne -ma soprattutto uomini- in fuga dai propri Paesi: dal genocidio in corso in Darfur e altre aree del Sudan, e dalle continue violazioni dei diritti umani commesse dal presidente-dittatore eritreo Isaias Afewerki.
Per bloccare (e scoraggiare) l’arrivo di migliaia di africani, il governo israeliano ha eretto la barriera che corre lungo il confine con l’Egitto. I lavori sono terminati alla fine del 2012 e secondo i dati raccolti dalla sede di Tel Aviv dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, fino ad allora in Israele entravano circa 1.000 richiedenti asilo al mese, ma durante i primi nove mesi del 2013 solo 36 persone sono riuscite a passare al di qua del confine.
Questo non significa che gli africani costretti a lasciare i propri Paesi abbiano smesso di partire. “Le rotte dei migranti sono in cambiamento continuo, la regola generale è che quando una rotta è bloccata queste persone cercano altri percorsi per raggiungere Paesi in cui mettersi in salvo”. Itamar Mann è un docente della facoltà di Legge dell’Università di Haifa e un esperto in migrazioni. Ha appena pubblicato “Humanity at sea: maritime migration and the foundations of international law”, un saggio dedicato al diritto internazionale riguardo i flussi migratori via mare. Mann sottolinea che “quando nel 2013 Israele ha bloccato l’accesso alla frontiera nel Sinai, abbiamo assistito a un picco delle migrazioni lungo la rotta del Mediterraneo centrale”. Si tratta di quella percorsa dai barconi che raggiungono Lampedusa e secondo Mann “si può dire con sufficiente certezza che non avendo più uno sbocco in Israele i flussi migratori hanno cercato una rotta alternativa dirigendosi verso la Libia e l’Europa”.
“Attraversare il Sinai non è semplice: ti devi fidare delle tribù beduine, ma non le conosci e non sai se ti terranno in ostaggio per chiedere un riscatto”. Mutasim Ali, cittadino sudanese
Nella maggioranza dei casi si tratta di persone come Mutasim Ali, costrette a lasciare i loro Paesi per non essere uccise o imprigionate. Israele rappresenta per loro una destinazione naturale: perché è vicino ed è uno stato democratico.
Mutasim Ali è nato e cresciuto in Darfur, in una famiglia che gli ha trasmesso “l’importanza della cultura e del servizio verso la comunità”. Racconta che “da quando avevo 5 anni i miei genitori mi hanno ripetuto che devo fare la mia parte per migliorare la società in cui vivo”. Nel 2005 il suo villaggio è stato ridotto in cenere dalle milizie supportate dal governo e la famiglia si è rifugiata in un campo profughi. Ali viveva a Khartoum, dove studiava all’università ed era coinvolto in movimenti di protesta non violenta contro il governo. Dopo esser stato arrestato ripetutamente a causa del suo attivismo ha lasciato il Sudan e nel 2009 è arrivato in Israele passando per l’Egitto. “Non ero sicuro di farcela” racconta. “Attraversare il Sinai non è semplice: ti devi fidare delle tribù beduine (che a pagamento conducono i migranti attraverso la Penisola del Sinai e la frontiera con Israele, ndr), ma non le conosci e non sai se ti terranno in ostaggio per chiedere un riscatto. Alla fine non hai davvero la possibilità di scegliere, devi tentare perché non ci sono altre opzioni”.
Ali è stato fortunato, ha compiuto la sua traversata nel deserto prima che venissero creati i famigerati campi di detenzione nel Sinai, dove i trafficanti beduini tengono prigionieri per mesi i migranti africani. Una volta arrivato in Israele è stato arrestato e imprigionato per alcuni mesi. Poi ha iniziato il percorso legale per esser riconosciuto come rifugiato e si è scontrato con lo status quo: un limbo in cui i migranti sono considerati “inflitrati” a cui il governo riconosce il diritto a non esser deportati ma non quello di lavorare, e in cui le udienze per valutare le richieste di asilo vengono continuamente rimandate. “Il governo ha dichiarato che i migranti non sono autorizzati a lavorare” spiega l’avvocato Weitzen, “ma in realtà sì perché non ci sono sanzioni emesse contro i datori di lavoro. E allora ti chiedi, possono o non possono lavorare? E se sì, perché non viene detto ad alta voce? Questa è solo una delle anomalie che riguardano la condizione dei richiedenti asilo in Israele”.
Come molti altri sudanesi ed eritrei, Mutasim Ali ha passato 14 mesi nel deserto del Negev, nel “centro di detenzione aperto” di Holot. Un edificio circondato da recinzioni, che ricorda una prigione ed è molto vicino alla frontiera con l’Egitto. Holot è stato aperto alla fine del 2013, quando la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale una parte della legge “anti-infiltrati” che consentiva la detenzione di migranti irregolari fino a tre anni e senza processo.
“Ci alziamo la mattina per la colazione delle 6 e poi stiamo qua, dormicchiando o passeggiando attorno al complesso, perché non possiamo andare da nessuna parte, ma nemmeno studiare o lavorare”. Anche Adam arriva dal Sudan ed è in Israele da quattro anni. Parla ebraico ed inglese fluentemente e durante una visita ad Holot organizzata da alcuni sacerdoti cattolici ci dice che secondo lui “non c’è futuro per noi qui”. “In questi anni non ho visto nessun gesto che faccia pensare che ci verranno riconosciuti i nostri diritti”.
Le migliaia di richieste d’asilo inoltrate da eritrei e sudanesi, infatti, restano bloccate sulle scrivanie di chi dovrebbe valutarle. “Perché Mutasim Ali ce l’abbia fatta non si sa”, ammette l’avvocato Weitzen. “Migliaia di altri sudanesi non stanno ottenendo risposta, il tribunale ha perfino ordinato al governo di risarcirli per ogni mese in cui il loro caso non viene esaminato e il governo continua a non esprimersi riguardo le loro richieste”. Secondo Assaf Weitzen “in Israele gli africani hanno un doppio problema: il colore della pelle e il fatto di non essere ebrei. Ma cosa significa essere ebrei? Se questo indica un insieme di valori e tradizioni che in qualche modo si incarnano nella società israeliana, allora concedere status e diritti a 41mila richiedenti asilo è assolutamente la cosa più ebraica da fare”.
Nonostante le ingiustizie e le difficoltà Mutasim Ali si sente a casa in Israele. Vuole finire gli studi in legge e continuare a lottare per promuovere politiche migliori per i migranti. “Questo significa anche rendere migliore, più tollerante, la società israeliana. E lo faccio perché anche io mi considero parte di questa società”, afferma. “In Sudan criticare il governo ad alta voce significa esser imprigionati, qua anche da migrante illegale vengo ricevuto dal parlamento israeliano per spiegare le mie ragioni. Queste sono cose che noi richiedenti asilo sappiamo apprezzare”.
© riproduzione riservata