Diritti / Opinioni
Quel realismo cinico che ci condanna alla violenza
Dall’Ucraina a Israele, il ricorso alle armi e alla sopraffazione viene presentato come ineluttabile. Una narrativa da cambiare. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Seguire la politica internazionale è una pratica angosciante. Alla guerra in Ucraina si sommano gli orrori nel Vicino Oriente, mentre nell’Europa del “lasciar morire” i migranti ai confini di terra e di mare si affermano per via elettorale le forze politiche dell’estrema destra (anche nella “fatale” Germania). In aggiunta, ogni notizia è accompagnata da comportamenti e pensieri che sembrano procedere in un’unica direzione, sotto l’egida della violenza e del cinismo. Pensiamo al dibattito pubblico (chiamiamolo così) sulle guerre che si combattono sempre più vicino a noi. Di fronte all’invasione russa dell’Ucraina e al terrorismo di Hamas in Israele la risposta militare senza limiti, la “legittima” vendetta, il desiderio di annientamento dell’altro sono recepiti e presentati come un’ovvietà. Al punto che le opzioni alternative -la diplomazia, la mediazione sovranazionale, il cessate il fuoco, la moderazione- sono considerate irrealistiche se non irresponsabili e scandalose.
C’è, in questa deriva, qualcosa di contingente che riguarda l’impoverimento della nostra vita democratica e il crescente (quanto feroce) conformismo del sistema dei media, ma c’è anche qualcosa di più profondo, che attiene a una visione antropologica sempre più rigida e asfittica. La visione secondo la quale la volontà di dominio, l’istinto di sopraffazione e una certa dose di suprematismo sarebbero tratti essenziali dell’Uomo, con la “u” maiuscola. Ne deriva che sommare morte a morte, orrore a orrore, crimine a crimine diventa un destino ineluttabile. Difficile, in questo scenario, non farsi prendere dalla cupezza privata e dallo sconforto pubblico, e così la sventurata profezia del cinismo non può che avverarsi, in un avvitamento di rassegnazione e passività che finisce per svuotare il senso stesso del principio di cittadinanza.
Sono 23 gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Cerialdo (CN) indagati per tortura, lesioni e abuso di autorità. Sono accusati di violenze su sette detenuti, avvenute fra 2021 e 2023. Non sono stati arrestati, né sospesi
Lo storico olandese Rutger Bregman ha provato a ribaltare il discorso corrente (e la sua presunta antropologia) in un libro che già nel titolo dichiara un punto di vista opposto: “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” (Feltrinelli, 2020). Bregman mette in discussione ciò che pare ovvio -il dominio dell’egoismo, dello spirito belluino, della competizione come regola sociale- e smonta punto per punto le presunte prove, che siano assunte dall’etologia o dalla storia o dalla psicologia sperimentale. Bregman, in breve, sostiene che i gruppi umani hanno un istinto di collaborazione che resta l’architrave della convivenza e che dovrebbe essere coltivato, invece di venire sopraffatto da quello che chiama “effetto nocebo”, l’opposto del placebo: è proprio l’attesa di comportamenti egoistici e violenti a renderli possibili e prevalenti.
Al fondo, evidentemente, c’è anche una questione di potere. La narrazione negativa e violenta del vivere sociale è uno strumento di governo utilizzato ampiamente dalle élite, come ben vediamo nell’attualità più pressante. Ma osserviamo anche, ai margini del discorso pubblico, attori della società civile, gruppi di cittadini, osservatori illuminati che mostrano saggezza, moderazione e fiducia nell’altro: ciò che Bregman invita a considerare non già come utopia, ma come realismo. Una parola il cui significato (oggi sinonimo di cinismo) dev’essere ribaltato: “È tempo di una nuova visione dell’uomo. È tempo di un nuovo realismo”.
Forse Bregman ha ragione ed è quindi urgente rifiutare e abbandonare la cupa narrazione corrente e favorire una rappresentazione non cinica di noi stessi. “La natura ci mostra che il possibile è più ricco del reale”, diceva il chimico e fisico Ilya Prigogine.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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