Terra e cibo / Intervista
Per farsi domande su ciò che mangiamo, ritrovando la cucina di una svolta
Francesca Pachetti da anni racconta sui social network la propria esperienza di contadina. Con il suo ultimo libro, edito da temposospeso, riflette sul cibo e sulle modalità con cui viene prodotto. E sull’importanza di conoscere davvero quello che portiamo in tavola, facendo attenzione alle trappole del marketing
La penna di Francesca Pachetti in molti l’hanno conosciuta sui social network, dove ha iniziato nel 2017 a raccontare la sua quarta vita, quella da contadina: “Dai 0 ai 13 anni bambina -si presenta-. Dai 13 ai 18 ragazza, dai 18 ai 27 educatrice e dai 27 ai 42 contadina”. Tra terra e poesia, la pagina Facebook “La raccontadina” è diventata nel 2019 anche un libro, pubblicato per la casa editrice Pentàgora a cura di Massimo Angelini per la casa editrice Pentàgora.
Dopo la fine di quell’esperienza, oggi Pachetti torna in libreria con la nuova casa editrice indipendente fondata da Angelini e da Esther Weber, temposospeso, che oltre a una nuova edizione de “La raccontadina” ha pubblicato il nuovo “I sapori di una svolta” (2023). Un libro (anche) di ricette, che sono 76, suddivise in stagioni e racconti, ma soprattutto un testo utile a chi voglia riflettere sul cibo, sul suo ruolo nella nostra vita e nella società.
Tra i concetti centrali del libro c’è quello di ciclicità: “In dicembre è difficile desiderare l’anguria, come in agosto sentire la voglia della ribollita. Il fatto che alcuni alimenti si mangino in ogni stagione perché li si può trovare in commercio continuamente non significa che sia il nostro corpo ad averne bisogno”, scrive. Un’altra definizione importante è data della parole commestibile: “Di per sé non vuole dire né buono né, per noi, adatto”. Dobbiamo tener conto del fatto che oggi “ci alimentiamo -scrive Pachetti- per lo più di cose completamente trasformate. Quindi tutto confezionato, ogni passaggio di trasformazione richiede passaggi, coadiuvanti, immesso al mercato ogni prodotto è commestibile, ma questo non significa che sia buono. A me chiedono: le foglie del cavolo le posso mangiare? Ma non ti chiedi se puoi mangiare tutto quello che c’è dentro un qualsiasi prodotto trasformato […] Aver lasciato la ‘chiave’, affidato riposto completa fiducia in qualcosa di industriale, che non può pensare alla nostra salute”. L’invito finale è a sentirsi parte dell’ecosistema, perché “noi siamo l’ecosistema” e “rispondiamo a regole e leggi naturali”, legati alle stagioni e alla luce e al buio. Questo oggi lo continua a capire chi lavora la terra.
Francesca, nel libro definisci il ruolo cibo come “un calmante” ma spesso “un colmante” e altre volte “un collante”. Che cosa vogliono evidenziare questi tre concetti?
FP Il cibo mette le radici nella terra e il nostro rapporto con il cibo non si può allontanare da queste radici. Il problema, quindi, è che oggi ci siamo allontanati molto dalla radice. Per andare in profondità su questi concetti avrei dovuto chiedere al lettore di correre una maratona in pochissimo tempo, e sarebbe stato controproducente. Come chiedere a una persona fuori allenamento di correre su una distanza così lunga. Ho provato quindi a mettere tanti spunti e input, a raccontare la maratona senza chiedere al lettore di correrla. Questo libro è un invito ad ascoltare, come se fosse la narrazione del paesaggio che potrebbe incontrare chi fa questa corsa, che dura per tutta la nostra vita, per sempre. Che include tutte le nostre fasi, emotive e organiche (a vent’anni abbiamo determinate necessità, a quaranta altre…). Ho scritto anche per provare a dare un piccolo valore al cibo, di cui oggi si parla quasi esclusivamente in modo spettacolarizzato.
“La cucina di una svolta” avvicina il lettore a un’alimentazione “naturale”, cioè -spieghi nel libro- “che si basa su ciò che, vicino a noi -dove non fosse possibile, poco più in là- possiamo trovare di fresco e intero (comunque proveniente da un tipo di agricoltura almeno biologica) e su ciò che ogni stagione ci mette a disposizione”. Perché è tanto importante questo passaggio?
FP La distanza dall’origine del cibo crea disorientamento. Naturale, termine abusato, in realtà è solo quello che è intero e -soprattutto- proviene da un certo tipo di agricoltura o di allevamento. Che abbia almeno una certificazione biologica. E che sia vicino, che lo si possa reperire nella nostra vicinanza. Tutto ciò che esce da queste caselle è marketing. O in un modo o nell’altro, è marketing. Non sta stretto alla parola naturale. Come contadina coltivo, a rotazione, un ettaro di terreno. Servo circa 80 clienti a settimana, che sono una comunità. Parto ogni stagione con un gruppo di persone. Calcolo quante ne posso servire in una stagione. Anche se hanno una certa “visione”, resta percepibile questa lontananza: una signora è venuta a ritirare la sua cassetta e quando ha visto la pianta dei cavoletti di Bruxelles è rimasta stupita. Non ci facciamo domande su ciò che mangiamo, su com’è fatto, da dove viene. Il cavolfiore ha quella forma, ma non ci importa quanto tempo ci vuole a farlo crescere. Sapere che li ho trapiantati ad agosto e che li raccolgo dicembre avrebbe un significato. La distanza altera completamente tutte le aspettative e la visione. Conosciamo le cose per come ci vengono vendute, ma non per quello che sono. Ci mancano dei passaggi.
Uno dei valori che emergono leggendo i tuoi scritti è quello della sobrietà, come moderazione e rinuncia al superfluo. Perché ritieni importante tornare a una società più frugale?
FP Siamo l’oggetto di studio del neuromarketing, che valuta le risposte che i consumatori hanno di fronte a determinati prodotti. Avendo perso di vista le ciclicità, perché vivere è diventato una stagione unica, in cui ci sono sempre le solite cose sugli scaffali, eventuali assenze fanno emergere i nostri problemi di vuoti: quando non vediamo più un determinato prodotto, traballiamo, perché ormai il nostro immaginario c’è un tutto lineare.
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