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Diritti / Intervista

“Non normalizziamo la detenzione: non può essere la risposta a tutti i problemi”

Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale

Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, traccia un bilancio dei suoi otto anni di mandato: a dicembre si insedierà infatti il nuovo ufficio guidato da Felice D’Ercole. Un periodo intenso speso a monitorare la vita dei più vulnerabili: migranti, detenuti, anziani e pazienti psichiatrici. La nostra intervista

“Il carcere è sempre di più una fotografia della società esterna che a sua volta riflette, anche se lo rifiuta, i paradigmi della vita reclusa. Soprattutto dopo il Covid-19 c’è l’incapacità, parlo del fuori, di tornare a uno sguardo libero. Percepisco molta asfissia nei rapporti tra le persone, difficoltà nelle relazioni e soprattutto il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania”.

Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, non nasconde la sua preoccupazione di fronte a un tempo in cui si assiste sempre di più alla “normalizzazione di parole come separatezza, totalità e incapacitazione, che sembravano aver perso vigore”. Si dichiara pronto a “consigliare” il suo successore, Felice Maurizio D’Ettore, professore di Diritto privato ed ex deputato del centrodestra, che si insedierà il primo dicembre, smorzando le polemiche per una nomina che nelle ultime settimane ha fatto molto discutere per il profilo scelto.

È tempo perciò di bilanci per i quasi otto anni (dal febbraio 2016) a presiedere un ufficio che si è occupato scrupolosamente dei luoghi più bui del Paese: dalle carceri (ne ha visitate personalmente oltre 150) ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), passando per le navi quarantena, gli hotspot per i migranti e le residenze per anziani.

Professor Palma, la popolazione detenuta è in forte aumento, circa 400 persone al mese. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha promesso di costruire nuove strutture. È la strada giusta?
MP Pensare che questo risolva questi ritmi di affollamento è pura utopia, anche perché sono sempre soluzioni che richiedono investimenti, pianificazione e via dicendo. Quello che servirebbe a mio avviso è invece riflettere sul senso della detenzione per chi ha pene molto brevi. Mi riferisco alle circa 4.600 persone detenute con condanne sotto i due anni: spesso sono il frutto di un fallimento sul piano sociale e per loro il carcere è totalmente inutile. Servono strutture diverse che hanno minor impatto in termini di costruzione, perché ad esempio necessitano di meno mura perimetrali, in cui la polizia penitenziaria ha solo un ruolo di supporto nel controllo e si basano soprattutto su un forte rapporto con l’ente locale. Se lo spirito del ministro Nordio era questo e quindi non soltanto una soluzione troppo semplicistica, l’ipotesi di vedere che cosa ha il demanio è interessante; non lo è se l’obiettivo è mettere i detenuti nelle caserme.

Ma perché aumentano così tanto i detenuti?
MP Abbiamo trasformato il diritto penale nello strumento primario di risoluzione dei conflitti. Ma non è la sua natura: dovrebbe essere un mezzo sussidiario da mettere in campo solo laddove sono falliti i tentativi di realizzare interventi meno impattanti, più di costruzione e meno di contenimento. Invece oggi è l’unica risposta non appena abbiamo una qualunque contraddizione: dall’ambiente alle relazioni interpersonali e addirittura, oggi, alla dispersione scolastica.

Si riferisce al cosiddetto “decreto Caivano”?
MP Sì, rimango un po’ inorridito sotto questo aspetto. Pensare di risolvere la dispersione scolastica, che richiede prima di tutto una prossimità di ricostruzione culturale, con lo strumento penale è la constatazione da un lato del fallimento di quel ruolo proattivo che dovrebbero avere la politica e la gestione amministrativa del territorio, dall’altro è l’ennesima spia dell’aumento dell’area del controllo. E i dati lo dimostrano.

Quali dati?
MP Sommando il numero delle persone detenute con quello di coloro che sono in misura alternativa abbiamo raggiunto un numero considerevole di quasi 150mila persone mentre fino a qualche anno fa questo dato si aggirava intorno alle 90mila unità. Questo ci dice che l’idea che le misure alternative comportassero un minor ricorso alla detenzione non ha funzionato: si è creato un sistema parallelo al carcere. È la stessa dinamica che abbiamo visto con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: quando sono stati dismessi il numero complessivo dei pazienti internati era la metà della somma di quelli oggi presenti nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza pensate per chi è dichiarato incapace di intendere e di volere, ndr) e di coloro che sono in lista d’attesa per entrarvi. Questo la dice lunga sulla nostra cultura giuridica.

A proposito, che cosa pensa del disegno di legge che mira a smantellare il reato di tortura?
MP È gravissimo. Prima ancora che dal punto di vista processuale, dell’impunità, credo sia inaccettabile che una società si misuri con alcuni episodi avvenuti pensando che il primo strumento per superarli sia ridurre la possibilità di accertarli e perseguirli.

“Sono preoccupato per l’allungamento del periodo di trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio: i 18 mesi sono un inutile messaggio disincentivate”

Come Altreconomia abbiamo pubblicato un’inchiesta sull’abuso di psicofarmaci nelle carceri. Come interpreta i dati emersi?
MP Incrocio i dati sugli psicofarmaci con due variabili. Al 9 novembre erano appena 330 le persone riconosciute con patologie di tipo psichiatrico di cui 29 ancora in fase di accertamento collocate nelle 44 Articolazioni per la salute mentale (Atsm) presenti solo in 33 istituti su 189 totali. Non tornano i conti con l’utilizzo di psicofarmaci: c’è un uso improprio del farmaco come elemento rassicurante o di mantenimento dell’ordine interno. Confronto però questi dati anche con la percezione che hanno gli operatori, magari amplificata, che dicono di avere sempre più “matti” reclusi e con il numero degli eventi critici in carcere. Questa situazione a mio avviso è frutto di una lotta tra due polarità: un’amministrazione che spinge per interpretare tutto come disagio psichico per non riconoscere l’impatto delle regole, degli ambienti, dei comportamenti di chi gestisce le strutture e un’area sanitaria che tende a frenare al di là del frenabile perché sa di non avere le risorse per prendere in carico più persone. Ecco che il problema lo riconduco alla scarsa presa in carico da parte delle strutture esterne: diminuirebbero gli ingressi e all’interno la presa in carico sarebbe più semplice.

Secondo lei in carcere si vede, in anticipo, quello che sarà la società “esterna”?
MP Penso sia già una fotografia del presente. Per un certo periodo abbiamo pensato che fosse necessario osservare il carcere per modificarlo, come ci insegna la Fisica del Novecento per cui quando osservo una particella elementare ne modifico il comportamento. Attualmente questa dinamica funziona un po’ meno perché il carcere riflette la società esterna che, a sua volta, riflette, anche se lo rifiuta, sempre di più i paradigmi della vita reclusa. Soprattutto dopo il Covid-19 c’è l’incapacità, parlo del fuori, di tornare a uno sguardo libero. Percepisco molta asfissia tra le persone, difficoltà nelle relazioni e il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania.

Che cosa ne pensa dell’accordo annunciato poche settimane fa tra la presidente del Consiglio Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama?
MP Al di là dei principi parto dall’impossibilità pratica: pensiamo a una nave soccorsa, l’accordo dice che soltanto uomini (né donne né bambini) possono essere portati in Albania. Poi dopo lo sbarco dovrò distinguere se queste persone provengono da un Paese di origine sicuro, in caso contrario dovrò riportarle in Italia. A fronte di questi passaggi manca un giudice naturale che possa esprimersi su quelle decisioni. Le norme dicono che può essere individuato nel luogo più vicino, ma riferendosi sempre a un contesto territoriale di cui si ha sovranità. È inutile far finta che quelle strutture siano come delle ambasciate: non è così, la sovranità è albanese. Insomma, per ora sono rassicurato dalla inapplicabilità dell’accordo salvo il rischio di gravi violazioni del diritto internazionale. Ci perde anche l’Albania, tra l’altro, nell’ottica di avvicinamento all’Ue.

Restiamo sul tema della detenzione dei migranti. La preoccupa l’ampliamento della rete dei Cpr?
MP Sono preoccupato soprattutto per l’allungamento del periodo di trattenimento: 18 mesi sono un inutile messaggio disincentivate. Già in passato l’aumento del periodo di detenzione non ha inciso sulla percentuale delle persone rimpatriate. Cresce invece il vuoto che vivono le persone nelle strutture per periodi sempre più prolungati che aumenta anche le forme di contrapposizione, di violenza e le difficoltà nel momento in cui si esce: perché molte delle persone trattenute, ricordiamocelo, rientrano, dopo il periodo nel Cpr, nelle nostre comunità. È proprio la formula in sé dei Cpr da rivedere. Mi lascia molto perplesso poi, dal punto di vista culturale, che con il nuovo decreto la realizzazione delle strutture incide sul codice militare con una logica che implicitamente associa il migrante a un nemico.

“Nelle Rsa la contenzione non può essere uno strumento utilizzato per sopperire alla mancanza di personale”

Si è occupato anche di Residenze per gli anziani (Rsa). Che idea si è fatto di quei luoghi?
MP Parto da una premessa: ci occupiamo di queste strutture perché alcune delle persone accolte sono affidate al controllo dello Stato e perché è necessario assicurarsi che, in varie situazioni, l’amministratore di sostegno non diventi sostituto della persona. Le Rsa nel nostro Paese sono tantissime, circa 14mila; quindi, le visite possono avvenire solo a macchia di leopardo. Tra le diverse criticità riscontrate ne segnalo una: la contenzione non può essere uno strumento utilizzato per sopperire alla mancanza di personale. Questo sguardo l’abbiamo mantenuto durante la pandemia e anche dopo e purtroppo abbiamo continuato a riscontrare il rischio di questo improprio utilizzo.

Prenderà il suo posto il professor D’Ercole. È preoccupato?
MP No. Mi rendo disponibile a cooperare e a consigliarlo. Nessuno però pensi che la questione sia affrontabile con i propri strumenti accademici, professionali. Questa è un’istituzione complessa perché affronta l’impossibilità di avere soluzioni facili a problemi complessi e soprattutto serve mantenere l’indipendenza rispetto al potere. Io ho attraversato quattro diversi esecutivi: so bene che è necessario tenere la barra a dritta.

Che cosa le è pesato di più durante il suo mandato?
MP La non riconoscibilità dei temi. Quell’idea che in fondo ci occupassimo di situazioni che rappresentano la minorità, qualcosa che non ha a che fare con i grandi problemi. Mi pesava quando sentivo dire “Garante dei detenuti”, perché veicolava quell’idea che ci occupassimo di cose che la società ritiene più marginali. Tutelavamo tante altre soggettività che possono attraversare ognuno di noi, dagli anziani ai disabili alle persone psichiatrici. E che raccontano tanto della società in cui viviamo.

Una società in cui diventa sempre più centrale “l’idea della detenzione”?
MP Sì. Siamo in una fase in cui termini come separatezza, totalità e incapacitazione tornano a essere accettabili dopo che per diversi anni erano stati messi fortemente in crisi. Sul piano internazionale mi colpisce che i Paesi nordici, storicamente molto aperti, oggi hanno cambiato rotta: quarant’anni fa non l’avrei mai potuto immaginare. Un segno chiaro che sta tornando prepotentemente questa visione normalizzante della “reclusione” delle difficoltà e, quindi, delle persone.

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