Diritti / Intervista
María Josefina Cerutti. L’Argentina è la mia storia
L’autrice di “Vino amaro” racconta l’emigrazione della famiglia piemontese dei Cerutti nel Paese e l’ingiustizia della dittatura. Una memoria individuale dal respiro collettivo
“La storia della mia famiglia è quella dell’Argentina”, spiega María Josefina Cerutti, l’autrice del libro “Vino amaro”, tradotto e pubblicato in Italia dalla casa editrice Interlinea (interlinea.com). Punto mediano tra romanzo familiare e racconto autobiografico, il testo ripercorre le vicende dei Cerutti, emigrati dal Piemonte alla fine dell’Ottocento e arrivati a Mendoza, al confine Nord-occidentale con il Cile, dove hanno fondato una delle principali aziende vinicole dell’America Latina.
“Sebbene stia riportando singole vicende, la narrazione che propongo non si limita all’individualità. È personale e sociale insieme perché parla dell’emigrazione italiana nel Paese e ripercorre i cambiamenti, politici e culturali, che lo hanno attraversato. Il mio bisnonno Manuel ha lasciato Borgomanero e si è imbarcato sulla nave Sirio nel 1895 all’età di ventuno anni: in Argentina è arrivato come bracciante, ha lavorato come contadino e poi è diventato imprenditore. La sua esperienza appartiene alla nuova ‘borghesia del vino’, la classe sociale che ha iniziato a configurarsi con la presenza dei migranti italiani a Mendoza, area dalla forte tradizione vinicola”, spiega la scrittrice, laureata in sociologia all’università di Buenos Aires e di Trento.
La geografia del romanzo è la città di Chacras de Coria. “È la mia Macondo”, afferma María Josefina alludendo al romanzo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, uno dei suoi punti di riferimento letterari. Qui si trova la grande casa dei Cerutti, acquistata dal bisnonno della scrittrice e resa il simbolo dell’ascesa economica della famiglia. Nelle sue stanze il 12 gennaio 1977, poco prima dell’alba, fa irruzione un commando paramilitare e sequestra Victorio Cerutti, nonno di María Josefina, insieme al genero Omar Masera Pincolini. I due sono detenuti illegalmente all’Esma, la scuola di meccanica della marina militare diventata un centro clandestino di prigionia. Sono torturati e uccisi nei voli della morte, gettati nelle acque del Río de la Plata. Prima di morire, Victorio era stato costretto a firmare i documenti che decretavano il passaggio delle sue proprietà a una società che, dopo la dittatura (1976-1983), si è scoperto essere legata all’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, membro della giunta militare. L’assassinio dei due membri della famiglia è riconducibile alla strategia di Massera che, coperto dal regime, accumulava risorse finanziare per controllare la giunta militare. Nel 1998 la “casa grande” è stata dichiarata Patrimonio Histórico de la Provincia de Mendoza e dovrebbe diventare un Archivio Nazionale della Memoria.
Nell’edizione argentina, il titolo del testo è “Casita Robada”. Diventa “Vino Amaro. Storia di emigrazione e dittatura” nella pubblicazione italiana. Perché il cambiamento?
MJC In spagnolo c’è un gioco di parole. L’aggettivo robada, rubata, fa riferimento al destino finale dell’edificio ma anche alle carte del rubamazzetto, con cui giocavo con mia nonna Josefina, uno dei personaggi principali del libro. Nella versione italiana, invece, si allude alle risaie di riso amaro nell’Italia settentrionale. Da qui, vino amaro: è un richiamo agli eventi vissuti dalla mia famiglia dopo la dittatura e anche un riferimento al Malbec, coltivato a Mendoza, che in francese conserva lo stesso significato di amarezza.
Quando ha deciso di iniziare a scrivere?
MJC Ho cominciato grazie a mia nonna Josefina. Sapevo che avrei voluto raccontare la storia della mia famiglia già da bambina. Dopo la dittatura, ho iniziato a farlo: era necessario. La fase della scrittura è durata due anni. Prima, ci sono stati i lunghi momenti dello studio dei materiali il cui centro è rappresentato dalla memoria orale, che va dai racconti e i ricordi dell’infanzia alle interviste con i parenti. Ovviamente, anche la ricerca storica è stata fondamentale. Dal punto di vista letterario, mi sento influenzata da autori europei sebbene nel libro ci siano elementi tipici del romanzo latinoamericano come il ruolo assegnato alla casa, che diventa un personaggio. È stata un punto di riferimento anche la produzione dei figli di desaparecidos.
“Ho cominciato a scrivere grazie a mia nonna Josefina. Sapevo che avrei voluto raccontare la storia della mia famiglia già da bambina. Dopo la dittatura, ho iniziato a farlo: era necessario”
I Cerutti sono solo uno dei numerosi casi di piemontesi arrivati a Mendoza e poi diventati imprenditori. Che forme ha assunto l’emigrazione italiana nell’area? Quali sono stati i tratti caratteristici della “borghesia del vino”, come lei stessa la definisce più volte?
MJC In modo sistematico, gli italiani iniziano a essere presenti in Argentina a partire dalla fine dell’Ottocento. Il loro arrivo a Mendoza, nella zona centro-occidentale del Paese, comincia dal 1860. Ci troviamo in una fase storica in cui è richiesta molta mano d’opera nel settore della produzione artigianale del vino, la cui tradizione risale ai tempi della dominazione spagnola. Quando arrivano gli italiani emigrati dal Piemonte, iniziano a essere impiegati come braccianti. In un secondo momento, diventano proprietari di piccoli appezzamenti di terreno: è l’inizio della borghesia italiana del vino. Sono interessanti i tratti culturali che la definiscono, come l’ostentazione della ricchezza ottenuta con il raggiungimento della nuova condizione economica. Era evidente tra i Cerutti: mio nonno Victorio, che quasi non sapeva leggere e scrivere, per spostarsi usava l’automobile. Mia nonna Josefina organizzava feste epocali in casa. Sono tutti gesti per sottolineare che erano riusciti a superare la condizione di contadini da cui erano partiti. Un atteggiamento che si vede anche nel rapporto con i figli. Dopo il matrimonio, mia nonna non aveva potuto continuare a studiare per volere del marito. Forse è riconducibile a una mancanza di possibilità, l’importanza che assegnava alla cultura: voleva che i figli, e poi i nipoti, studiassero e facessero carriera. Ma allo stesso tempo per l’unica figlia, María Beatriz, aveva scelto il matrimonio e l’uomo da sposare. Sono le spinte contrapposte che attraversano una donna dei primi del Novecento ma anche le antinomie di una nuova borghesia.
Prima di arrivare in Argentina, il capostipite Manuel Cerutti idealizzava l’America e quello che il nuovo continente avrebbe permesso di ottenere. In Argentina, a essere mitizzato era il piccolo paese italiano da cui era partito.
MJC È un elemento comune a ogni emigrazione: mitizzare il sogno cui si aspira e poi le radici da cui si proviene. Un doppio movimento, un sentirsi a metà su un ponte, che ho provato anche io quando mi sono trasferita in Italia. Non è successo lo stesso, invece, con i miei familiari che hanno lasciato l’Argentina a causa della dittatura. Non hanno più pensato di tornare nel Paese dopo la frattura causata dall’assassino di mio nonno e mio zio. Io sono la sola a essere tornata a Mendoza. Prima era il dolore a prevalere. Adesso non più. La scrittura è stata la mia terapia.
“Io sono la sola a essere tornata a Mendoza. Prima era il dolore a prevalere. Adesso non più. La scrittura è stata la mia terapia”
Victorio e Omar sono due dei 30mila desaparecidos del regime. Tra febbraio e marzo 2015, insieme alle sue cugine, ha testimoniato al maxiprocesso Esma. Crede ci sia stato un atto di riparazione nei confronti delle vittime della dittatura?
MJC Una riparazione istituzionale c’è stata con il processo alla Giunta Militare nel 1985 e con il processo Esma, avviato dall’allora presidente Raúl Alfonsín e proseguito con i Kirchner. Invece, ci sono state spinte revisioniste sotto la presidenza di Mauricio Macri. L’allora segretario dei diritti umani, Claudio Avruj, aveva messo in dubbio che i desaparecidos fossero stati 30mila. Nel 2016 c’è stato anche il tentativo di applicare la “legge del 2×1” che avrebbe permesso di dimezzare gli anni di carcere per alcuni responsabili di terrorismo di Stato condannati per crimini contro l’umanità. La reazione è stata massiccia: le strade erano un fiume di persone, anche giovanissimi che non avevano un ricordo diretto della dittatura.
La memoria individuale può diventare collettiva?
MJC Certo. Succede anche nel mio libro. Le storie singole sono sempre inserite in un contesto più grande di loro: chi legge può identificarsi e se ne può appropriare. In tal senso, credo che la storia della mia famiglia sia anche quella di un intero Paese.
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