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America Latina, è tempo di una nuova ripartenza

Le proteste antigovernative a Managua, in Nicaragua, nel maggio 2018 - © Time

Diciotto anni dopo il “sogno” di Porto Alegre di “un altro mondo possibile”, la democrazia nel sub-continente latinoamericano si sta usurando, strattonata da destra e da sinistra, manipolata e falsata. Non solo in Nicaragua, teatro dell’ultima crisi. Tra mille contraddizioni, però, si intravvede una politica nuova. L’analisi di Alfredo Somoza

La crisi che si è aperta nel maggio scorso in Nicaragua è diventata la cartina di tornasole di un problema che si sta verificando nell’intero sub-continente latinoamericano, con qualche eccezione. La democrazia, la conquista più importante degli anni 80-90, dopo quelli bui delle dittature e delle guerre civili, si sta usurando, strattonata da destra e da sinistra, manipolata e falsata. La miccia che porta dritto alla crisi nicaraguense è stata accesa anni fa, quando nel 2014 Daniel Ortega riuscì a riformare la Costituzione per potersi candidare per la terza volta consecutiva come presidente nel 2016. Un vizio molto diffuso in America Latina quello di mettere mano alle costituzioni quando torna comodo. È stato fatto nel Venezuela bolivariano, e prima nell’Argentina menemista, è stato abortito in Paraguay e rifiutato con un referendum in Bolivia, dove però Evo Morales con tutta probabilità si candiderà lo stesso nel 2019. Nel caso nicaraguense si concentrano anche altri mali comuni, il nepotismo, con la spartizione di cariche e rendite politiche ai membri della famiglia Ortega e la corruzione generalizzata.

Il sandinismo, anche se ormai poco collegabile al partito armato che vinse la rivoluzione del 1979, ha perso consensi tra i giovani, tra i vecchi fondatori del partito stesso, tra i cattolici, ma controlla con pugno di ferro piazza ed esercito. Quando un qualsiasi governo si rende responsabile di oltre 300 morti in due mesi di scontri con l’opposizione -teoricamente- è finito, ma in Nicaragua, come prima in Venezuela e come ai tempi dei militari, c’è sempre un “complotto” pronto per giustificare l’ingiustificabile: l’imperialismo yanqui, i reazionari locali, la delinquenza, ecc.. Un copione da Guerra Fredda che a quei tempi trovava qualche riscontro nella realtà, ma che oggi è fuori tempo massimo.

La crisi che oggi dilaga in America Latina, con le eccezioni di Paesi come Cile, Costa Rica o Uruguay, è figlia della debolezza delle istituzioni democratiche, della facilità con la quale politici e imprenditori riescono ad imporre la loro volontà, della presenza invasiva delle mafie della droga, dalla falsata separazione tra i poteri dello Stato. L’incapacità di governare la crisi, la corruzione e il nepotismo, la volontà di perpetuarsi al potere sono stati i fenomeni che hanno segnato e segnano la caduta del PT (il Partito dei Lavoratori) in Brasile, del kirchnerismo in Argentina, del madurismo in Venezuela, dell’orteguismo in Nicaragua, dell’evismo in Bolivia. Questo a sinistra, dove i richiami al socialismo ormai non bastano più per coprire i disastri prodotti dalla cattiva gestione dell’economia tra gli altri problemi.

A destra invece l’offerta politica è rimasta sempre la stessa, destre golpiste come in Paraguay, Honduras o Brasile, destre neoliberiste come in Perù, Messico e Argentina, destre evangeliche come in Costa Rica e destre oltranziste come in Colombia. L’alternativa ai governi del Venezuela o del Nicaragua sarebbero senz’altro governi debolissimi, con scarsa vocazione sociale e spiccata sensibilità verso il mondo degli affari, nazionale e straniero. Sempre lo stesso? Sì e no. Nel senso che malgrado il conflitto nicaraguense ad esempio abbia spaccato in due la società, nella galassia che chiede le dimissioni di Daniel Ortega si intravvedono, tra mille contraddizioni, i germi di una politica nuova che sta arrivando ora in America Latina. Quell’ondata che ha dato il trionfo a Andrés Manuel Lopez Obrador in Messico, non tanto per il suo passato nella sinistra nazionalista classica, ma soprattutto perché identificato come candidato “antisistema”. Un candidato che si è scagliato contro la “casta” corrotta della politica locale, contro l’intreccio tra stato e narcos, a favore del cittadino indifeso. In Nicaragua l’opposizione a Ortega, che ha come nucleo centrale gli studenti universitari, rivendica le stesse cose: trasparenza, fine della corruzione, liberazione dello Stato dal nepotismo. Sono richieste che riecheggiano in tutto il sub continente e che possono avere anche declinazioni fortemente conservatrici, come nel Brasile che va al voto nell’ottobre 2018 e nel quale un ex-militare, Jair Bolsonaro, è tra i candidati più forti con un programma di “mano dura” contro la delinquenza e di rimpianto per i “bei tempi “della dittatura.

Se l’America Latina è stata sempre un laboratorio -nel bene e nel male- delle vicende politiche occidentali, ora si sta vivendo una transizione verso una nuova era. Che non è detto sia per forza regressiva, o repressiva, ma il rischio esiste. Un’era nella quale si torna a rivendicare i principi di eguaglianza, di giustizia, di trasparenza e partecipazione. Nei primi anni 2000 a Porto Alegre si sognava un “altro mondo possibile” e si dava il via a una stagione entusiasmante della politica latinoamericana. Ora è tempo di una nuova ripartenza.

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