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Cultura e scienza / Intervista

Marco Balzano. Il senso vero della (parola) felicità

Marco Balzano è nato nel 1978 a Milano dove vive e lavora come insegnante di liceo © Maria Cristina Traversi

Nell’ultimo saggio “Cosa c’entra la felicità?” l’autore indaga questa emozione attraverso le chiavi della lingua. Greco, latino, ebraico e inglese: l’etimologia diventa la via per riscoprire il significato profondo di un termine spesso abusato

Tratto da Altreconomia 254 — Dicembre 2022

Conoscere una parola serve prima di tutto ad avere l’idea di ciò che essa nomina. ‘Idea’ è un vocabolo molto interessante, perché è connesso con il verbo éido, che in greco significa vedere” scrive Marco Balzano nel suo ultimo saggio, “Cosa c’entra la felicità?”, uscito a settembre per Feltrinelli editore. L’autore -scrittore di narrativa che ha vinto il premio Campiello nel 2015, con “L’ultimo arrivato” (Sellerio) ed è stato finalista del Premio Strega nel 2018 con “Resto qui” (Einaudi)- è anche insegnante di lettere alle scuole superiori e saggista: già nel 2019 aveva pubblicato, sempre per Einaudi, un libro dedicato all’etimologia, “Le parole sono importanti”. Questo, scrive nell’introduzione, è “un racconto sulla felicità e sul potere che possiede di condizionare ogni istante della nostra vita”.

Perché c’era bisogno di un libro che ragionasse intorno alla parola felicità?
MB Credo innanzitutto che ci sia un notevole bisogno di parlare di felicità e di farlo in una maniera diversa rispetto a quella sdoganata e proposta dal linguaggio della tv, nei talk show e nella pubblicità, e dall’interazione sui social network. Quelli che riceviamo infatti sono input molto omologanti sulla felicità, mentre nella realtà questo è un concetto che dovrebbe avere una dimensione soggettiva, che chiede cioè a ognuno di noi di fabbricare ‘un modo’ di sentire la felicità che sia specchio di ciò che viviamo e sentiamo dentro. Un’idea che, per questo, non è nemmeno statica: se potremo confrontare la definizione di felicità che scriviamo oggi con quella che scriveremo tra cinque anni, troveremo cose molte diverse. Felicità è una parola capace di interrogare su quanto ognuno di noi si rispecchia nella vita che si sta costruendo, mentre dall’esterno arrivano messaggi che rischiano di sclerotizzare (cioè rendere rigido, non funzionale, incapace di adattarsi ai cambiamenti, ndr) il concetto, per cui possiamo essere felici solo in un modo e se abbiamo raggiunto quel determinato obiettivo. Ho preso così le parole che rimandano alla felicità nelle culture che ci appartengono, trovando che esse racchiudono storie e percorsi sorprendenti. Non sono un manuale di istruzioni per essere felici, né il mio obiettivo è quello di fornire risposte, tanto che ho messo il punto interrogativo anche nel titolo del libro, ma ciò che scrivo indica percorsi interessanti che servono a conoscere e far osservare. Credo che un saggio debba mettere soprattutto voglia di conoscere.

Il saggio “Cosa c’entra la felicità? Una parola e quattro storie” di Marco Balzano è stato pubblicato a settembre 2022 da Feltrinelli editore (15 euro, 128 pagine)

Tu sei anche un insegnante, qual è l’importanza di lavorare con i ragazzi a partire dall’etimologia delle parole?
MB Insegno lettere in un liceo, anche se quest’anno sono in aspettativa. Se devo essere onesto, però, è più il lavoro di scrittore che mi ha fatto interrogare su come si usano le parole. A richiamare a una responsabilità nell’uso della parola. L’insegnamento invita invece a comprendere la necessità della divulgazione, che credo sia un’attività culturale che in Italia manchi o viene fatta in modo molto raffazzonato, perché non esiste un via di mezzo tra l’accademia e l’informazione super-tecnica e quella incontrollata e il racconto non verificato che viene buttato lì su social, sul web e anche sui media. La divulgazione è la spina dorsale della cultura media: a scuola, purtroppo, finiamo ancora oggi per dare alcune chiavi di accesso alla lingua che si riducono alla grammatica e alla sintassi, ma ci sarebbero porte di entrata che possono far venire molto più entusiasmo verso la lingua: l’etimologia è una di queste, che però non viene praticata. Lo stesso accade anche all’università, dove ormai ci si laurea in Lettere senza aver visto un manoscritto, senza aver passato giornate in archivio. Alla lingua si potrebbe accedere facendo etimologia, linguistica, comunicazione, o anche creando blog. Invece a uno studente chiediamo di fare analisi grammaticale, logica e del periodo per tre cicli di scuola. Poi è facile affermare che i ragazzi non leggono, un’informazione per altro tutta da verificare, ma avrebbe il senso di chiederci con che piedi vogliamo stare nel presente.

“Felicità è una parola capace di interrogare su quanto ognuno di noi si rispecchia nella vita che si sta costruendo, mentre dall’esterno arrivano messaggi per cui possiamo essere felici solo in un modo e se abbiamo raggiunto quell’obiettivo”

Qual è stata per te la sorpresa maggiore analizzando i significati di felicità in greco, latino, ebraico e inglese?
MB La cosa che mi ha colpito di più e probabilmente quella che mi ha spinto a scrivere il libro è un punto comune: l’idea di felicità chiama sempre in causa l’altro, ha una dimensione di contatto continuo con l’altro, ed esiste solo nella misura in cui esiste qualcuno a cui offrirla. Questo l’ho trovato nelle lingue e nelle culture antiche, ma anche in quella inglese, la lingua del tempo presente. Questa lettura trasversale va contro i messaggi che arrivano dal mercato, che vorrebbe una felicità individuale e legata al potere d’acquisto. Non è così. La felicità è cura dell’altro: in latino felicitas ha la stessa radice di felo, e questa parola indica l’allattamento del bambino, una madre che si prende cura di qualcuno (le persone felici sono chi dà il latte e chi lo succhia, la felicità è alla base della creazione di questo legame indissolubile). Nel mondo greco, la felicità -eudaimonía- è figlia della consapevolezza di sé. Sono aspetti un po’ controcorrente ma ancora completamente realizzabili e che, a sprazzi, pratichiamo ancora.

A quale etimo ti senti più vicino e perché?
MB La premessa è che riscriviamo la nostra idea di felicità ogni volta, non sposiamo una lettura in maniera definitiva. Nel corso della vita, la felicità è così a volte una lenta ricerca di consapevolezza, altre un rapimento, l’estasi, un abbandono all’emotività che non prevede il passaggio del pensiero. Quello che mi ha colpito di più, benché io non sia credente anche se mi considero dotato di spiritualità, è il concetto di fiducia in ebraico, che indica l’atto di camminare con altri verso una stessa meta, senza chiedersi quando e se si arriverà, che esprime l’importanza di stare in questo presente di cammino. Un esercizio interessante.

“L’idea di felicità chiama sempre in causa l’altro, ha una dimensione di contatto continuo con l’altro, ed esiste solo se esiste qualcuno a cui offrirla. Questa lettura va contro i messaggi che arrivano dal mercato, che vorrebbe una felicità individuale”

Arrivando alla società moderna, mostri un legame tra la felicità e la rivoluzione, un’idea collettiva.
MB Il Settecento italiano, forse ancor prima di quello francese, ha messo bene in luce che tu questa parola la puoi scrivere e tratteggiare solo se esiste una felicità politica. Questa può essere intesa, come dicevano gli Illuministi, che ciascuno uomo possa andare a lavorare quel pezzo di giornata necessario ad avere a sera qualcosa da mettere a tavola e che gli resti un po’ si tempo per pensare alla sua idea soggettiva di felicità, che altrimenti non esiste. Questa idea di felicità può essere raggiunta, e se i francesi rinunciano a inserire un obiettivo così ambizioso nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1795, vent’anni prima gli americani l’avevano indicata espressamente nella Dichiarazione d’indipendenza, che tra i diritti inalienabili dell’uomo comprende il “pursuit of happiness”, la ricerca della felicità. È vero che questo concetto ha alimentato lo spirito del sogno americano, che poi diventa anche un incubo (se non ce la fai, cavoli tuoi), ma è molto interessante richiamarlo oggi che viviamo un tempo di campagne elettorale continue in cui i politici -e non solo quelli italiani- non hanno il coraggio di spingersi a nominare questa parola. Perché il cittadino è molto più gestibile quand’è arrabbiato, se è ignorante. Una persona colta e appagata, invece, sa anche andarsene per una strada che non è quella che gli indichi tu.

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