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Diritti / Intervista

L’Occidente dalla doppia morale che ha dimenticato la Palestina

Ilan Pappé, storico e accademico israeliano. Qui un momento dell’intervista con Anna Maria Selini

Intervista allo storico israeliano Ilan Pappé, che da anni ha lasciato il suo Paese ma continua a denunciare le discriminazioni ai danni dei palestinesi da parte
del governo di Tel Aviv e il disinteresse della comunità internazionale

Tratto da Altreconomia 250 — Luglio/Agosto 2022

Ancora oggi Ilan Pappé dice di essere considerato un traditore da una parte dei suoi connazionali, ma nonostante ciò non ha mai smesso di indagare. La sua speranza sono i giovani, “perché sanno quello che succede oggi in Israele”, come l’omicidio della reporter di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh. “È stata uccisa perché i giornalisti possono vedere esattamente chi è il terrorista e chi la vittima”, ha dichiarato lo storico israeliano, docente all’università di Exeter, durante il convegno “La doppia morale dell’Occidente”, organizzato a Napoli da Femminile Palestinese (femminilepalestinese.it) e dall’Università L’Orientale. 

Professor Pappé, in passato lei ha parlato di pulizia etnica, invece che di esodo dei palestinesi nel 1948. Come definisce la condizione odierna dei palestinesi?
IP Credo che la pulizia etnica sia parte del Dna del regime israeliano: tutti i giorni si verifica, a volte anche di una sola persona o famiglia. Non si è mai fermata, perché i palestinesi sono ancora in Palestina, nonostante tutti gli sforzi per liberarsi di loro. 

Qual è oggi la narrazione ufficiale del 1948, per esempio nelle scuole? È cambiata dopo i suoi lavori o gli israeliani continuano a ignorare parte della loro storia?
IP La narrazione è cambiata e poi ricambiata ancora. Dopo il nostro lavoro da cosiddetti nuovi storici negli anni Novanta entrarono nei libri scolastici alcune informazioni sulle espulsioni del 1948 e sui massacri. Non cambiò la narrativa, ma almeno si ammise che ci furono quelli che chiamerei crimini di guerra. Poi la destra tornò al potere e tolse le revisioni. Ora vige la vecchia versione sionista, per cui i palestinesi se ne andarono perché i leader arabi gli dissero di farlo. Oggi non si può menzionare nemmeno la Nakba, la catastrofe per i palestinesi: c’è una legge che vieta a chi fa parte di un’istituzione pubblica di farlo. Il rischio è quello di perdere i finanziamenti. 

Con le sue ricerche d’archivio e i suoi libri ha scioccato l’opinione pubblica del suo Paese. Le costò la cattedra e lasciò Israele. Oggi è ancora considerato un nemico?
IP Sì, credo di essere considerato ancora un traditore da molti. Ma ci sono le nuove generazioni che trovano il mio lavoro più accettabile, né trovano strano che Israele possa aver fatto certe cose in passato, perché sanno quello che fa oggi; non sono ancorati al 1948, perché non è la loro generazione. C’è più comprensione, ma non abbastanza. I media e la politica mainstream credo abbiano esagerato la mia influenza. Il quotidiano più popolare, Yediot Ahronot, scrisse che ero responsabile di aver diffuso il “mito della Nakba”, come se questa fosse un mito e la gente avesse bisogno di me per diffonderlo. 

Una manifestazione davanti all’ambasciata israeliana a Londra il 14 maggio 2022 per commemorare la Nakba (l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre avvenuta nel 1948) e protestare contro la morte della giornalista Shireen Abu Akleh. Nel corso del 2021 tre importanti organizzazioni per i diritti umani -l’israeliana B’tselem oltre a Human Rights Watch e Amnesty International- hanno accusato Israele di praticare l’apartheid nei confronti dei palestinesi © flickr.com/photos/alisdare

E per quello che riguarda la sua famiglia?
IP Molti anni fa, quando ho iniziato i miei studi, ho avuto dei problemi. Alcuni familiari ancora oggi non mi parlano, il che però non è per forza negativo. Ma quello che ho pagato è un piccolo prezzo rispetto a quello dei palestinesi. Se in Israele, io ebreo, vado a una manifestazione considerata illegale con un amico arabo-israeliano, anche lui cittadino israeliano, lui viene arrestato, io mandato a casa. 

Si sente solo?
IP
 No, perché tanto tempo fa ho capito che i miei amici e compagni in Israele sono i palestinesi, non gli ebrei. Mi sono sentito solo, c’è voluto del tempo per guadagnarmi la loro fiducia, ma ora mi sento parte della comunità palestinese. E poi vedo nelle giovani generazioni nuove voci, anche se non così grandi. Nel mondo accademico è peggio che ai miei tempi: in passato potevi dire qualcosa, pagavi un prezzo, ma oggi nessuno osa parlare all’interno dell’accademia israeliana. È davvero molto preoccupante per i miei amici: se fanno qualcosa di sbagliato credo che anche loro perderanno il lavoro. 

“Se gli ucraini sparano a un generale o a un soldato russo sono eroi, è diritto alla difesa. Quando un palestinese uccide un soldato israeliano, invece, è terrorismo”

Da fuori si ha l’impressione che tra destra e sinistra israeliana non ci sia una grande differenza. Sembra che pochi della società civile si preoccupino della situazione di Gaza o in generale dei palestinesi, sicuro meno che in passato. È vero?
IP Credo sia un’analisi corretta. Ed è parte dei risultati di quello che è successo nel sistema educativo. Le persone si sono laureate in università molto nazionaliste e sioniste, non hanno nessuna compassione per i palestinesi. Per loro sono tutti terroristi, hanno una comprensione molto bassa della situazione e non sono di larghe vedute come 20 o 30 anni fa. L’intera società israeliana va a destra, nel senso di destra israeliana. 

E perché secondo lei?
IP Primo perché il sionismo non può essere di sinistra. Non puoi essere un colonizzatore liberale, un progressista che fa pulizia etnica, un oppressore molto gentile. O sei un colonizzatore o sei un colonizzato. I colonizzatori di sinistra hanno comunque la stessa mentalità di quelli di destra. Credo sia una conseguenza logica del sionismo. Se arrivi, colonizzi la terra di qualcun altro, credendo di avere il diritto di farlo e non lo riconosci, cosa c’entrano il liberalismo, la sinistra e il socialismo? Come puoi essere liberale o democratico, se questa è la situazione?

La giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh è stata uccisa lo scorso 11 maggio vicino a Jenin (nella Cisgiordania settentrionale) mentre documentava un’operazione dell’esercito israeliano in un campo profughi. Secondo molti testimoni presenti, Abu Akleh sarebbe stata uccisa da un proiettile sparato da soldati israeliani © flickr.com/photos/usembassydhak

Lei parla di doppia morale dell’Occidente. La situazione palestinese può essere confrontata con quella ucraina?
IP
Non solo la situazione -che non è esattamente la stessa- ma la copertura mediatica e la risposta politica sono comparabili. In entrambe c’è un problema di rifugiati: quelli ucraini hanno conquistato tutta la simpatia possibile, non abbiamo mai visto una reazione simile. Quando gli ebrei erano rifugiati durante la Seconda guerra mondiale, la maggior parte dei Paesi non li ha voluti. Ai palestinesi non si è mai riconosciuto il diritto al ritorno, molti non sanno nemmeno che sono profughi dal 1948. Per non dire del modo in cui l’Europa tratta i rifugiati dall’Africa e dal mondo arabo. I leader europei non si vergognano nemmeno a dirlo. È per questo che l’Europa non è multietnica e multiculturale ed è riuscita a rimanere totalmente bianca. Tutti i politici, di destra o di sinistra, sono di base razzisti. Specialmente verso gli islamici. In secondo luogo, se gli ucraini sparano a un generale o a un soldato russo sono eroi, quel gesto è diritto alla difesa. Quando un palestinese uccide un soldato israeliano, invece, è un assassino, è terrorismo. Alcuni ucraini usano gli stessi metodi dei palestinesi: le molotov, ma i palestinesi sono criminali, gli ucraini sono come Garibaldi. E soprattutto, nel caso dell’Ucraina, il contesto neonazista e fascista è stato completamente dimenticato. Quando il contesto non è conveniente, l’Occidente non ne parla, quando conviene sì. La stessa simpatia per gli ucraini, si sarebbe dovuta sviluppare verso i palestinesi moltissimi anni fa. 

“Israele deve temere la democratizzazione del mondo arabo, perché più quest’ultimo sarà democratico, più i governi saranno pro-palestinesi”

Perché i palestinesi non sono più sulle agende internazionali? È dovuto soltanto ai successi israeliani o hanno delle colpe?
IP
 Questa è una questione molto importante, ci sto scrivendo un libro: “Lobbying for zionism”. Innanzi tutto dobbiamo ricordare che il sionismo è iniziato come un progetto cristiano, in particolare protestante, per cui l’idea che gli ebrei conquistassero la Palestina è parte del volere divino. Prendere la Palestina era una soluzione all’antisemitismo e insieme un imperativo religioso: i palestinesi fin dall’inizio si sono scontrati con una coalizione che credeva -ogni Paese per le sue ragioni- che non avere gli ebrei in Europa, ma in Palestina, fosse un buon piano.

I palestinesi stanno affrontando una coalizione impossibile, in termini di potere militare, politico ed economico. Da Washington a Roma fino a Sidney, tutti credono che siano loro a dover pagare il prezzo: per risolvere l’antisemitismo dopo l’Olocausto o perché credono che Israele sia l’unica democrazia nel Medio Oriente e che quindi deve fermare il pericolo dell’Islam. Tutto quello che i palestinesi rappresentano viene visto come contrario agli interessi dei governi, delle multinazionali o dell’industria militare. Anche se alla guida della Palestina ci fossero stati Madre Teresa o Gandhi, oggi avremmo la stessa situazione. Non c’è niente che i palestinesi possano fare, se non quello che stanno facendo: resistere e lottare. E auspicabilmente un giorno ce la faranno. Perché c’è un limite a un’oppressione del genere e alla violazione dei diritti umani, ma finora Israele ha avuto molto successo.
Questo non succede spontaneamente, si devono investire molti sforzi e ci sono due gruppi in particolare che si impegnano a farlo: gli accademici e l’industria cinematografica. Basta guardare le serie tv di Hbo e Netflix in cui i palestinesi sono i cattivi e i terroristi: questo è molto più potente rispetto al mondo accademico per entrare nelle menti delle persone. I palestinesi hanno fatto un sacco di errori ma non sono nella situazione attuale a causa dei loro errori.

Che cosa deve succedere perché la situazione cambi? Crede sia possibile?
IP Lo spero. Non sono solo uno studioso, ma un attivista e devo essere ottimista. I palestinesi devono innanzitutto trovare l’unità politica, anche se da sola non basterebbe. Quello in cui possono sperare sono tre cose: che la società civile nel mondo, che è molto a favore della Palestina, riesca a convincere i governi a cambiare atteggiamento verso Israele, come è stato durante l’apartheid in Sudafrica. La seconda è che continuino le primavere arabe, anche se oggi questa regione si trova più in un inverno post-coloniale, piuttosto che in una primavera. I palestinesi devono sperare in una vera decolonizzazione: sarà un processo molto lungo, ma credo che sarà vincente. Israele deve temere la democratizzazione del mondo arabo, perché più quest’ultimo sarà democratico, più i governi saranno pro-palestinesi. Infine, spero che le persone che come me lavorano all’interno della società ebraica in Israele riescano a creare una sorta di base anti-colonialista. Finora abbiamo fallito. Dobbiamo parlare con gli ebrei israeliani e specialmente con quelli che provengono dai paesi arabi. Devono capire che sono stati traditi sul percorso della loro identità. Sono convinto che loro siano il ponte per spiegare agli israeliani che non sono parte dell’Europa, ma del mondo arabo. Dei suoi problemi, ma anche delle sue soluzioni. 

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