Diritti / Intervista
L’obiettivo puntato sulla tragedia dei migranti, parte della storia moderna
Aris Messinis è un fotografo greco dell’Agence France Press, e un volontario a bordo delle navi che soccorrono i profughi al largo delle coste libiche: “Devi raccontare la realtà, devi ‘coprire’ la verità, non importa quanto difficile sia”. Dal primo al 15 ottobre è stato a bordo della Astral, nave della ong “Proactiva Open Arms”
Aris Messinis è un fotografo professionista. Lavora per l’Agence France Press, una delle più importanti agenzie del mondo, e da dieci anni è a capo della redazione di Atene. Nel 2015, sull’isola greca di Lesbo, diede una mano a soccorrere i migranti in arrivo dalla Turchia. Quell’anno ne sbarcarono in tutto il Paese 856mila (dati UNHCR). In rete si trova ancora il suo ritratto, macchina fotografica al petto e in braccio una bambina. Il suo servizio fotografico su quegli “scenari di guerra in tempo di pace” gli è valso quest’anno il Visa d’Or, prestigioso riconoscimento al fotogiornalismo che questo greco di 39 anni ha ritirato a Perpignan, in Francia.
Fino all’ottobre del 2016, però, Aris non aveva ancora scattato la fotografia della follia: “Una scena che resterà dentro me per il resto della mia vita”, ricorda. Un cumulo di 29 cadaveri calpestati da centinaia di migranti pressati su un gommone alla deriva. L’incontro è capitato nelle acque del Mediterraneo, tra le coste libiche e quelle italiane, dopo essersi imbarcato all’inizio del mese con l’equipaggio della nave Astral, in dote alla ong spagnola Proactiva Open Arms. Aris, come sempre, ha puntato la macchina e cristalizzato immagini che hanno fatto il giro del mondo. Lui, che dal 1983 -quando aveva sei anni- vive ad Atene dov’è cresciuto accanto a un padre fotogiornalista e una madre giornalista, scosta però ogni enfasi epica dal racconto del suo mestiere. “È una scelta”, dice.
Come prepari le tue missioni e come è nata quella a bordo della nave Astral?
AM In questo momento lavoro per una grande agenzia, quindi si tratta di un’organizzazione di gruppo, collettiva. Può partire tutto da un’idea o da una storia che emerge con forza. A quel punto saltiamo a bordo e iniziamo a coprirla, a raccontarla. Quella del viaggio a bordo della nave Astral, invece, è stata un’idea mia, maturata anche grazie a contatti con l’equipaggio e il direttore dell’ong Proactiva, Óscar. Gli ho chiesto di potermi aggregare al gruppo e così è avvenuto, dal primo al 15 ottobre 2016, con l’incognita delle condizioni meteorologiche. Ci siamo incontrati a Malta, punto di riferimento logistico per le squadre di soccorso, e da lì sono partito come membro effettivo dell’equipaggio. Mi occupavo delle questioni di bordo e dovevo rendermi disponibile all’aiuto durante i soccorsi. Quando potevo, svolgevo il mio incarico principale: scattare fotografie e raccontare quello che stava accadendo.
Hai vissuto la migrazione tra Turchia e Grecia e poi quella tra le coste africane e l’Italia. Quali sono le principali differenza tra questi contesti?
AM Entrambe le storie condividono un elemento di profonda tristezza, e cioè il fatto che le persone stanno morendo. Ci sono però enormi differenze. Dalla Turchia alle isole greche, Lesbo ad esempio, le distanze non sono così ampie e il viaggio che aspetta i migranti è quasi “realistico” in termini di fattibilità, seppur molto pericoloso. Quello che abbiamo visto nel Mediterraneo, invece, è folle. Le distanze sono impossibili da coprire attraverso quelle rotte. Ti riporto un esempio: con la nostra imbarcazione, la Astral, partendo da Malta, impiegavamo 24 ore per coprire 20 miglia. Quelle persone, invece, due o tre giorni, nel mare agitato, in condizioni improbabili. Non sono coscienti di ciò che stanno facendo, ne sono sicuro, non sono al corrente delle distanze che dovranno affrontare. I contrabbandieri, dietro la promessa di un futuro migliore, non li mandano incontro a un rischio, li mandano a morire, nient’altro.
Durante le operazioni la Astral ha assistito otto gommoni con 150 persone a bordo ciascuno. In uno di questi avete trovato 29 cadaveri.
AM Era un giorno normale, per quanto possa essere “normale” una giornata di drammatici salvataggi in mare. Ad un certo punto abbiamo incontrato un gommone che sembrava carico di 120-130 persone, quando in realtà era quasi il doppio. Li abbiamo aiutati a sbarcare su una nave più grande. All’ultimo trasbordo ci è apparso davanti quello che ho definito un cumulo di cadaveri (“Hill of bodies”), 29 per esattezza, disposto al centro del gommone. La stragrande maggioranza era morta per asfissia causata dal sovraffollamento e dal fatto che le persone si calpestassero l’una e l’altra.
Qual è il ruolo della fotografia?
AM Devi raccontare la realtà, non importa quanto difficile sia. Devi “coprire” la verità, mostrare alle persone quel che sta accadendo, e devi anche riuscire a trasmettere le emozioni attraverso i volti delle persone che stai fotografando. Per me non esistono regole. Tu devi scattare quella fotografia. Se è vero, reale, devi raccontarlo.
Perché segui questo argomento?
AM Dove ci sono conflitti ci saranno rifugiati, dove c’è povertà ci saranno migranti. Fino a quando la società resterà brutale, incontreremo sempre questo genere di fenomeno. Non c’è via per fermarlo. Quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni è parte della storia moderna. È qualcosa di enorme che i nostri figli studieranno a scuola, ne sono certo. Stiamo parlando di un numero gigantesco di persone che soffrono, una notizia forte, grande, ed è parte del nostro mestiere parlarne. Il mio interesse, però, non è nato in questi ultimi anni. Ho raccontato il fenomeno migratorio in Grecia a partire dal 2005, quando iniziarono i primi viaggi dalle coste turche con le stesse modalità, anche d’inverno: c’erano gli stessi barconi precari, ma numeri e proporzioni erano distanti da quelle di oggi. Questo fenomeno non si è mai fermato. La guerra in Siria l’ha fatto esplodere, non nascere.
Che cosa pensi dell’accordo tra l’Unione europea e il regime di Erdogan?
AM Penso che ciascuno abbia giocato la sua partita. Quando l’Europa ha visto la reazione negativa di fronte all’accoglienza dei migranti ha incaricato la Turchia di arginarne la portata. È una sorta di business, un gioco sulla pelle delle persone. È tutto molto triste. Abbiamo già dimenticato i rifugiati europei durante la Seconda guerra mondiale e tanti altri passaggi storici del nostro continente.
La fotografia può aiutarci?
AM La fotografia aiuta. Il punto è come sei predisposto di fronte a ciò quel vedi, se cogli l’importanza di quell’immagine. Se non sei quel tipo di persona, allora non importa. Certamente la fotografia può mostrare ciò che sta accadendo. Penso all’immagine di Alan Kurdi, il piccolo affogato su una spiaggia turca. Quello scatto cambiò l’approccio europeo in tema di rifugiati. Se ricordi, le reazioni a quell’immagine portarono a una temporanea apertura dei confini. Prima non c’era alcuna sensibilità. Li chiamavano “immigrati”, non “rifugiati”.
Come fai a resistere?
AM È molto difficile, è duro, fisicamente e psicologicamente. Devi resistere e continuare a resistere, ricordandoti che la tua è una scelta. Non importa se è difficile, o se lascia segni che emergeranno in futuro. Al momento, personalmente, non ne sento il peso, anche se è impossibile fare previsioni.
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