Economia / Approfondimento
L’Irlanda e un bilancio da record. Breve storia di un (perverso) paradiso fiscale
Nel 2022 il Paese ha registrato entrate fiscali per 83 miliardi di euro, in forte crescita rispetto all’anno precedente, mentre il debito pubblico è sceso al di sotto della metà del Pil. Dalle imposte sulle società -in larga parte multinazionali lì domiciliate- arrivano quasi 23 miliardi. Che cosa farsene ora? L’analisi di Mario Turla
La Repubblica d’Irlanda è un Paese con una popolazione di neanche cinque milioni di abitanti su un territorio grande come il Nord Italia: 1,5 milioni di persone vivono nell’area di Dublino e nella seconda città, Cork, circa 125mila, praticamente come a Monza. Il resto è fatto di piccoli e piccolissimi centri con una campagna ampia e bellissimi paesaggi. La lingua ufficiale è il gaelico, che non c’entra nulla con l’inglese, ma di fatto tutti parlano inglese.
È stato divertente vedere il presidente irlandese Michael Daniel Higgins inaugurare a Milano il padiglione di Expo nel 2015. Ha iniziato il discorso in gaelico, con la sorpresa e l’imbarazzo dei presenti. Ed è proprio questa la chiave di lettura del Paese: si pensa di comprenderlo ma in verità ha una vita propria, per alcuni aspetti incomprensibile, tipo la lingua ufficiale o sport come il calcio gaelico o l’hurling.
Quest’anno l’istituto di statistica irlandese (Central statistic office, Cso) ha pubblicato il resoconto delle entrate fiscali che il Paese ha registrato nel 2022. I risultati sono a dir poco incredibili e meritano di essere descritti brevemente.
Partiamo dalle entrate fiscali che nel 2022 hanno raggiunto 83,1 miliardi di euro con un incremento rispetto al 2021 di 14,7 miliardi. Tra le maggiori voci d’incremento ci sono le imposte sulle società che crescono a 22,6 miliardi (si veda la tabella di seguito), con un incremento di 7,3 miliardi rispetto al 2021. Si tratta della seconda voce delle entrate, superando l’Iva, che si assesta a 18,6 miliardi, anch’essa in aumento di 3,2 miliardi.
Anche sotto il profilo dei costi la spesa pubblica è salita, principalmente per gli aumenti degli stipendi pubblici e dei consumi, con una diminuzione dei sussidi: 107,5 miliardi di euro, 1,8 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Il totale delle entrate dello Stato nel 2022 è stato invece di 115,5 miliardi di euro, 16,6 miliardi in più rispetto all’anno precedente. L’avanzo è di circa otto miliardi, il risultato più alto mai realizzato. Come ulteriore dato da prendere in considerazione c’è l’indebitamento lordo del Paese, pari a 224 miliardi, in riduzione di ben 11,4 miliardi, ed equivalente al 44,7% del Prodotto interno lordo, in calo rispetto all’anno precedente quando era del 55,4%.
A generare questi risultati incredibilmente positivi sono state le tasse, e principalmente quelle sulle imprese. Ricordiamoci che in Irlanda, fin dal tempo delle tigri celtiche, l’apertura di una società a responsabilità limitata è semplice e la spesa limitata. E che soprattutto le tasse sono pari al 12,5% dell’utile. Questo ha portato a stabilire le sedi per l’Europa delle grandi multinazionali americane e non solo: Meta, Amazon, Pfizer, Google, Apple, Twitter, etc., ma anche il comparto finanziario di moltissime aziende, anche italiane, ha una propria sede nel Paese “verde”.
La cosa interessante è stata la discussione che si sviluppata all’interno del Paese su che cosa fare di questo surplus. Se spenderlo in infrastrutture o case, un bisogno che l’Irlanda ha per via di una immigrazione principalmente di cittadini ucraini, che ha sostituita quella polacca, ritornata in parte per lo sviluppo avuto in questi anni. Ma anche in Irlanda esistono problemi nel poter mettere a terra progetti, in parte per la mancanza di risorse e di mano d’opera. Infatti, il Paese gode di un momento particolarmente positivo e viaggia con una piena occupazione.
Di conseguenza si è sviluppata l’idea di costituire un fondo sovrano come accade in Norvegia, dove lo Stato investe i proventi guadagnati dall’estrazione del petrolio. Le stime indicano che a fine del 2035 gli irlandesi potrebbero arrivare ad avere un fondo da 140 miliardi di euro, più della metà del debito pubblico attuale, prevedendo un investimento annuo di circa 12 miliardi. Se investito correttamente, oltre a una rendita, potrebbe dare la possibilità di investimenti interni che il mercato non fa, magari per ritorni troppo a lungo termine.
A differenza della Norvegia, però, i risultati irlandesi non arrivano dal petrolio ma sono principalmente ottenuti con un dumping fiscale a danno degli altri Stati dell’Unione europea. Questo danno per mancate entrate per gli altri Paesi è significativo, e per certi versi quasi inaccettabile e incompatibile con i dichiarati principi dell’Unione. A sostegno di questa “strategia” fiscale alcuni sostengono che lo Stato irlandese sia in realtà efficiente e che pertanto possa permettersi di avere una tassazione così bassa. Altri, al contrario, indicano che il Paese abbia in realtà impostato il sistema fiscale proprio per attirare le multinazionali, e far così pagare le tasse (poche, per i colossi) in Irlanda. Ricordiamoci che per evitare la doppia tassazione i principi internazionali fiscali prevedono che le multinazionali paghino le tasse là dove hanno sede le loro holding. Basta dunque scegliere un Paese dalla tassazione bassa e il gioco è fatto.
Ma che cosa potrebbe fare l’Unione europea? Vedo due strade. La prima, portata avanti anche con una proposta del Parlamento europeo, sarebbe quella di imporre alle multinazionali di avere bilanci suddivisi per Stati, in modo che se si vende una merce o un servizio in un Paese le tasse si pagano lì. Questa proposta, anche se discussa e condivisa, non è passata. La seconda (decisamente utopistica), sarebbe quella di uniformare i sistemi fiscali in tutta l’Unione europea, in modo da non incentivare comportamenti parassitari basati sulla tassazione.
Resta una domanda. Siamo sicuri che se anche ci fosse un sistema fiscale uniforme le multinazionali sceglierebbero un Paese come l’Italia? Con regole incerte, un sistema della Pubblica amministrazione e giudiziario incomprensibile per il mondo anglosassone e un livello di istruzione nelle materie scientifiche ed economiche basso. O sceglierebbero uno Stato con una Pubblica amministrazione snella ed efficiente, con regole certe e un livello alto d’istruzione?
Mario Turla, laureato in Scienze dell’informazione e master in economia, è esperto di normativa antiriciclaggio e consulente per banche e pubbliche amministrazioni nell’applicazione della 231/2007. Ha collaborato -tra l’altro- alla definizione degli indicatori di anomalia antiriciclaggio nella Pubblica Amministrazione. Ha progettato soluzioni informatiche per individuare le transazioni sospette in ambito bancario ed è il fondatore di Txt risk solutions, start-up innovativa di gestione del rischio con AI. Insieme a David Gentili e Ilaria Ramoni ha scritto per Altreconomia “Il giro dei soldi. Storie di riciclaggio. Da Milano al Delaware: dove finiscono i capitali sporchi di evasori e criminali”
© riproduzione riservata