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L’empatia salverà il mondo e altri stereotipi. Come non parlare più di autismo
Il 2 aprile si celebra la Giornata internazionale della consapevolezza sull’autismo, ma questa consapevolezza tarda ad arrivare. Tra gli esempi lampanti, la convinzione che le persone autistiche siano prive di empatia. Uno stereotipo che ci riguarda in quanto esseri umani e che interessa la comunità scientifica
Il 2 aprile si celebra la Giornata internazionale della consapevolezza sull’autismo, ma questa consapevolezza tarda ad arrivare. All’interno dello strumento più comunemente usato per definire e diagnosticare le condizioni che riguardano la nostra mente e il nostro cervello -il Diagnostic and statistical manual of mental disorders, noto anche come Dsm 5- nel 2013 l’autismo è diventato “Spettro autistico” inglobando l’ex sindrome di Asperger, e chiarendo che questa complessa condizione del neurosviluppo può co-occorrere con difficoltà linguistiche e disabilità intellettiva, ma non le implica necessariamente. Nonostante ciò, a distanza di dieci anni, sono ancora poche le persone che hanno chiara questa complessità.
Il concetto di “spettro” infatti è spesso frainteso. Al punto che, invece della realtà multiforme e multicolore che descrive, viene interpretato come una linea che collega un estremo all’altro, per lo più caratterizzata da un elenco di stereotipi, alcuni dei quali sono particolarmente dannosi e lesivi dell’identità delle persone autistiche. L’esempio più lampante è la convinzione che queste siano prive di empatia, uno stereotipo che affonda le proprie radici in due problemi principali: uno ci riguarda in quanto esseri umani e l’altro interessa nello specifico la comunità scientifica.
Innanzitutto non sappiamo veramente che cosa sia l’empatia. Ne sentiamo spesso parlare genericamente come “capacità di mettersi nei panni delle altre persone”, nonché come possibile soluzione a qualsiasi incomprensione. In realtà, non solo l’empatia è composta da due componenti molto diverse tra loro, ma non funziona allo stesso modo per chiunque.
Quando se ne parla, solito si fa riferimento alla cosiddetta “empatia emotiva” o “affettiva” che ci permette di comprendere le emozioni e le sensazioni altrui, con la consapevolezza del confine tra noi e l’altra persona. C’è chi, dentro e fuori dalla comunità scientifica, include in questa abilità anche la capacità di rispondere in modo appropriato a queste emozioni e sensazioni: ed è qui che, anche a parità di abilità di comprensione, ogni persona differisce dall’altra. Ad esempio, pur comprendendo la situazione e le sensazioni altrui, c’è chi offrirà ascolto quando l’altro avrebbe desiderato un aiuto concreto e chi cercherà una soluzione per chi invece avrebbe voluto solo lamentarsi un po’.
Chi afferma che “le persone autistiche non hanno empatia”, generalmente pensa alla componente emotiva. E sbaglia: una mole piuttosto ampia di studi scientifici, infatti, sembra suggerire che l’empatia emotiva o affettiva sia presente tanto nelle persone autistiche quanto nella popolazione generale. Può essere, piuttosto, che le persone autistiche agiscano mediamente in maniera diversa dalle persone cosiddette neurotipiche in risposta alle emozioni altrui. Ad esempio, queste ultime tendono a offrire più spesso una soluzione anche quando non è richiesta oppure dimostrano all’altra persona la loro comprensione attraverso il racconto di una propria esperienza personale.
L’empatia però ha un’altra componente importante, quella definita “cognitiva” (detta anche “teoria della mente”) che ci permette di assumere il punto di vista altrui, di comprenderne le intenzioni, i pensieri e le azioni. Ed è con questa componente che alcune persone autistiche hanno difficoltà, soprattutto quando si tratta di ricostruire un messaggio comunicato in maniera molto indiretta, ad esempio facendo ricorso a metafore, espressioni non letterali, umorismo e ironia.
Questo ha una serie di vantaggi, quali la possibilità di comunicare più di un messaggio contemporaneamente, di far ridere il proprio interlocutore, o di non prendersi piena responsabilità di ciò che si dice. Tuttavia, nemmeno le persone neurotipiche sono tutte ugualmente brave nel comprendere questo tipo di messaggi indiretti. Anzi, c’è una grande variabilità individuale in queste funzioni cognitive nella popolazione generale, tanto che l’incomprensione reciproca è comune anche tra persone che hanno, in tutto e per tutto, lo stesso funzionamento mentale.
Ci sono buone ragioni, però, per ritenere che la comunicazione tra persone neurotipiche e autistiche sia in effetti più complessa rispetto a quella tra persone neurotipiche ma anche di quella tra persone autistiche. È ciò che sostiene lo psicologo britannico Damien Milton che per primo, nel 2012, ha descritto il problema della “doppia empatia” che ribalta la prospettiva classica sulle difficoltà di comprensione reciproca tra persone neurotipiche (la popolazione generale) e quelle autistiche, storicamente attribuite a un deficit nell’empatia cognitiva autistica.
Milton suggerisce che queste difficoltà siano dovute a una differenza insita nei rispettivi funzionamenti mentali e nel diverso modo di percepire e soprattutto di esprimere empatia, tra persone neurotipiche e autistiche. Diverse persone autistiche interne ed esterne alla comunità scientifica si sono esposte in favore di questa teoria e progressivamente iniziano a comparire le prime prove empiriche della sua validità: le persone autistiche, tra di loro, si capiscono bene, o almeno quanto le persone neurotipiche si capiscono tra loro. Le difficoltà emergono tra persone con funzionamenti mentali diversi e sembrano essere bidirezionali.
Emerge qui il secondo problema, quello che interessa la comunità scientifica: parleremmo mai di deficit da parte delle persone neurotipiche nell’empatia verso le persone con autistiche? Naturalmente no. Anzi, non avremmo nemmeno pensato alle difficoltà di comunicazione tra questi due gruppi come frutto di un’incomprensione reciproca, come fenomeno relazionale e non come effetto di una compromissione individuale, se non fosse stato per il contributo teorico e per l’attivismo a opera delle persone autistiche.
Parte di questo problema è dovuto alla costante evoluzione dei criteri diagnostici e alla lentezza con cui la macchina accademica (e ancor di più la pratica clinica) si aggiorna. Un’altra parte si può attribuire alla difficoltà di produrre strumenti standardizzati e validati scientificamente che colgano le sfumature di fenomeni umani così complessi in contesti che, guardando le statistiche d’incidenza dello spettro autistico, fino a non molto tempo fa potevamo ritenere rari.
C’è una questione però che giace sul fondo di questo e di molti altri problemi di discriminazione scientifica e sociale ed è il tema della rappresentazione della società all’interno della ricerca scientifica. La comunità accademica è largamente composta da persone neurotipiche (fino a prova contraria, dato l’aumento di diagnosi tardive). Se una maggiore presenza di persone autistiche nei ruoli accademici sarebbe auspicabile, non è di per sé necessaria a cambiare la prospettiva di questi studi verso una visione più vicina alla realtà vissuta da conosce “lo spettro” da dentro. Basterebbe, in effetti, rendere gli “oggetti di studio” dei “soggetti” di ricerca protagonisti e co-produttori della scienza che li riguarda. Ci eviteremmo, forse, di perdere decenni non comprendendoli. Tanto quanto ci sembra che loro non comprendano noi.
Eleonora Marocchini ha ottenuto il dottorato di ricerca in Psicologia e scienze cognitive presso l’Università degli Studi di Genova. Fa divulgazione scientifica attraverso l’account Instagram @narraction. Nel 2022 ha vinto la call per ricerche da raccontare di Codici Ricerca e Intervento con il progetto “Deficit o differenza”, di cui questo articolo è una restituzione
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