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Ambiente / Approfondimento

L’ecologia digitale alla prova dell’intelligenza artificiale generativa

© emiliano-vittoriosi - Unsplash

Presentata come strumento chiave per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti, l’intelligenza artificiale generativa e i suoi centri di calcolo stanno in realtà incrementando i consumi energetici, a base fossile, e idrici, così come le emissioni. Urge discuterne e intervenire, spiega Francesco Cara, docente di Ecodesign al Politecnico di Milano

Due anni fa Altreconomia pubblicava “Ecologia digitale“, un libro a più mani che esponeva in modo sintetico le principali implicazioni dell’industria digitale su ambiente, società ed economia, tracciando traiettorie verso un digitale sostenibile. Sei mesi dopo la pubblicazione, ChatGPT di OpenAI faceva irruzione sul mercato, seguito da una pletora di servizi che, utilizzando tecnologie d’intelligenza artificiale generativa, offrivano la possibilità, a partire da prompts, di creare testi, illustrazioni, fotografie, video, composizioni musicali, programmi software, avatar e tanto altro, con risultati di qualità comparabile a quella di rappresentazioni create dall’attività umana.

Da allora ChatGPT è prepotentemente entrato a far parte del quotidiano di tanti. A soli due mesi dalla sua introduzione, nel gennaio 2023, ChatGPT contava già cento milioni di utenti e i dati più recenti indicano che un anno dopo il sito chat.openai.com si sia stabilizzato intorno a 1,6 miliardi di visite mensili. Nel febbraio 2024, Bing di Microsoft, che integra motore di ricerca tradizionale e applicazione chat, ha ricevuto circa 1,25 miliardi di visite, mentre Gemini di Google e Perplexity.ai ne hanno ricevute poco più di 50 milioni. A queste visite, si devono poi aggiungere gli accessi agli stessi servizi da applicazioni su smartphone, e l’utilizzo dei sempre più numerosi servizi, professionali e non, che integrano l’intelligenza artificiale generativa.

Ancora poco però si sa su chi usa questi servizi e per fare che cosa. Una delle inchieste più accurate è stata realizzata da Ofcom, il regolatore della comunicazione britannico, che nel suo rapporto “Online nation 2023”, ha messo in evidenza come siano soprattutto i giovani della “Generazione Z”, nati cioè tra il 1996 e il 2012, ad aver adottato massicciamente l’intelligenza artificiale generativa, mentre My AI di Snapchat è il più usato tra i più giovani, tra i sette e i 17 anni. Dalle risposte degli intervistati traspare il desiderio di conoscere e padroneggiare questa nuova tecnologia, utilizzandola per divertimento, per lavoro e per studio, e una diffusa preoccupazione per le possibili conseguenze sul mondo del lavoro.

Come già avvenuto con le tecnologie digitali preesistenti, l’impatto ambientale è invece del tutto ignorato anche se è evidente che l’intelligenza artificiale generativa richieda il trattamento di enormi volumi di dati durante l’allenamento, computazioni complesse a ogni interazione, una potenza di calcolo molto importante e microprocessori di nuova generazione.

In “Ecologia digitale” avevamo proprio cercato di valutare l’impatto ambientale del digitale e in questo ambito avevamo messo in evidenza i risultati delle prime valutazioni relative al consumo energetico durante la fase di allenamento di sistemi di machine learning predittivi, sottolineando come l’intelligenza artificiale, amplificando quello che già era avvenuto con le criptovalute, avrebbe contribuito a un ulteriore aumento della domanda di calcolo, con relativa crescita nei consumi d’energia, di acqua per il raffreddamento dei calcolatori, di suolo per accogliere nuovi e più grandi centri di calcolo e di materia prima, energia e acqua per la fabbricazione di nuove tipologie di microprocessori.

Dopo quasi diciotto mesi di evoluzione e crescita ininterrotti, è evidente che l’intelligenza artificiale generativa stia non solo trasformando in modo profondo la società e il mondo digitale, ma stia estremizzando alcuni dei fenomeni già evidenziati in “Ecologia digitale”.

In primo luogo, estremizza la logica estrattivista di matrice industriale che caratterizza anche il settore digitale. Allo sfruttamento di combustibili fossili, risorse minerarie e naturali, l’industria digitale unisce l’estrazione dei dati personali, e con l’intelligenza artificiale generativa ne introduce un’inedita forma: l’accaparramento di tutti i contenuti disponibili su internet. Per lo sviluppo di modelli generativi servono infatti giganteschi volumi di dati. Nel caso dei Modelli linguistici di grandi dimensioni (Llm) utilizzati in ChatGPT, per esempio, servono testi di qualità, come libri e articoli, spesso pubblicati, redatti e rivisti con grande cura. Per ottenerli, niente di più facile che “grattare” (scrape in inglese) tutti i testi di qualità disponibili su internet: notizie, articoli, libri, messaggi sui forum, articoli da enciclopedie, vocabolari e dizionari, programmi informatici, le 250 miliardi di pagine web che Common crawl archivia dal 2007, estratti senza chiedere alcun permesso, né riconoscere alcun diritto agli autori. E così, OpenAI ha potuto allenare il modello GPT-3 utilizzando circa 300 miliardi di vocaboli ed elementi lessicali “grattati” dalle pagine web.

Ma per sviluppare il modello GPT-4 ci volevano ancora più dati e così OpenAI ha creato Whisper, un sistema di riconoscimento della parola che ha trascritto oltre un milione di ore di audio dai video pubblicati su YouTube, sempre senza chiedere alcun permesso né riconoscere alcun diritto agli autori. Per allenare GPT-4 il volume di vocaboli ed elementi lessicali utilizzati è così cresciuto fino a 13mila miliardi. Di fronte allo stesso ostacolo, Google ha fatto man bassa di contenuti dai video YouTube, dalle recensioni e descrizioni dei luoghi di GoogleMaps e, secondo alcuni, anche dai documenti archiviati su Google Drive, mentre Meta si è servita dei miliardi di immagini, video e testi condivisi su Instagram e Facebook.

La matrice estrattivista del digitale non potrebbe essere più evidente. Il problema è che ora, come in alcuni ambiti del settore minerario, quasi tutte le risorse prime disponibili su internet sono state sfruttate. Dove si troveranno i dati necessari per continuare a migliorare le prestazioni e addestrare i futuri sistemi di intelligenza artificiale generativa? La soluzione più comune è quella di fare affidamento alla stessa capacità generativa dell’intelligenza artificiale per creare nuovi contenuti, da cui i futuri sistemi potranno apprendere in una sorta di spirale senza limiti. 

In secondo luogo, esiste una percezione diffusa secondo la quale il digitale è virtuale e immateriale e quindi non produce impatti ambientali significativi in termini di sfruttamento delle risorse, inquinamento, emissioni climalteranti e rifiuti. Nel libro “Ecologia digitale” abbiamo mostrato come il digitale, inteso come sistema costituito da centri di calcolo, reti di trasmissione e dispositivi, sia in realtà altamente energivoro, emissivo e idrovoro; grande consumatore di metalli rari e allo stesso tempo grande produttore di rifiuti. Immersi nel mondo delle rappresentazioni digitali, si tende infatti a dimenticare che il livello simbolico del settore, dove qualunque testo, immagine, video, brano musicale viene tradotto in sequenze di stati binari: Off (0) e On (1), poggi su segnali elettrici che scorrono su circuiti elettronici. Per ricevere l’informazione, archiviarla, trattarla e trasmetterla, il sistema digitale necessita quindi di materiali con caratteristiche conduttive ed elettromagnetiche particolari, di microprocessori molto impattanti, e di una fornitura ininterrotta di elettricità. Inoltre, il flusso elettrico disperde calore che, nei centri di calcolo, viene gestito con l’ausilio di sistemi di raffreddamento che, a loro volta, richiedono materiali, lavorazioni, elettricità e acqua. E lo stesso discorso vale per le reti di trasmissione dati.

Nel ciclo di vita di un sistema di intelligenza artificiale generativa, la fase in assoluto più energivora è l’allenamento, mentre l’inferenza, in sé molto meno energivora, ma ad alta frequenza, può avere un consumo cumulato comparabile. Si stima, per esempio, che generare una sola immagine consumi tanta energia quanto una carica della batteria del proprio smartphone. Anche la prudente Agenzia internazionale dell’energia (Iea), che in passato sosteneva che la sempre maggior efficienza dei centri di calcolo avrebbe permesso di contenere la crescita del traffico e del trattamento di dati, ha lanciato l’allarme nel suo rapporto Electricity 2024 prospettando il raddoppio del consumo d’elettricità di queste strutture da qui al 2026. Se nel 2022 i centri di calcolo hanno consumato circa 460 TWh di elettricità, pari al 2% della domanda globale -con picchi del 4% negli Stati Uniti dove si trovano il 33% dei centri di calcolo e in Europa dove si trova il 16%- la Iea prevede che nel 2026 il consumo si situerà nella forchetta tra 620 TWh e 1.050 TWh, all’incirca quanto un grande Paese industriale come il Giappone assorbe annualmente. La situazione dell’Irlanda è esemplare. 

L’Irlanda ospita attualmente 82 centri di calcolo, 14 sono in costruzione e 40 hanno avuto il via libera per l’avvio dei cantieri. Nel 2022, hanno assorbito 5,3 TWh di elettricità, pari al 17% del consumo irlandese totale ed equivalente all’energia utilizzata dalle famiglie irlandesi. Si prevede che, con i nuovi sviluppi, il consumo d’elettricità da parte dei centri di calcolo raddoppierà da qui al 2026 arrivando a coprire il 32% della domanda totale del Paese. Per proteggere la stabilità e l’affidabilità della rete, il regolatore del mercato elettrico irlandese ha introdotto nuove normative che regolano la connessione alla rete e la capacità di autoproduzione, di accumulo di elettricità e di gestione flessibile della domanda per i nuovi centri di calcolo.

Nonostante quattro anni fa Microsoft abbia assunto l’impegno di rimuovere dall’atmosfera più anidride carbonica di quanta ne immette entro il 2030, il suo ultimo rapporto di sostenibilità, pubblicato il 15 maggio scorso, indica che nel 2023 le emissioni di anidride carbonica sono state superiori del 30% rispetto al 2020. L’aumento è dovuto al rapidissimo e crescente sviluppo dell’offerta di servizi di intelligenza artificiale generativa che hanno aumentato il carico di lavoro degli attuali centri di calcolo e la loro domanda d’elettricità; e accelerato la costruzione di nuove strutture, con ingente impiego di materiali come cemento e acciaio, e di componenti, come microprocessori di nuova generazione, che sono tra i manufatti in assoluto più emissivi. L’aumento delle emissioni (circa il 60%) è stato ancora più marcato nel caso di Meta. 

Malgrado la promessa che l’intelligenza artificiale generativa sia uno strumento fondamentale per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, quello a cui stiamo assistendo attualmente va esattamente nella direzione opposta. L’intelligenza artificiale generativa incrementa consumi energetici -in una fase in cui dovremmo non solo ridurli, ma anche sostituire fonti fossili con fonti rinnovabili- ed emissioni climalteranti, in un momento in cui stiamo cercando di stabilizzarle per poi ridurle.

Come risposta, il mondo della ricerca sta cercando di rallentare questa crescita associando parametri d’efficienza energetica ai soli parametri di prestazione, e introducendo etichette energetiche per creare consapevolezza e valorizzare i servizi più sobri. Il mondo della politica sta elaborando standard per misurare il consumo energetico, idrico e le emissioni prodotte da centri di calcolo e servizi di intelligenza artificiale generativa in modo da poterli regolamentare e controllare. Queste misure devono però essere introdotte nei tempi più brevi possibili perché l’innovazione procede veloce e più avanza più diventa arduo regolarla. 

Francesco Cara è docente di Ecodesign presso il Politecnico di Milano e IED Milano. Il suo lavoro esplora il ruolo e la pratica del design nell’epoca attuale, l’antropocene, con un’attenzione particolare alla sostenibilità digitale. È tra i coautori del libro “Ecologia digitale” (Altreconomia, 2022); curatore del festival Climate Space; attivista del Climate Reality Project e per la campagna europea per il diritto alla riparazione, repair.eu.    

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