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La partita milionaria del diritto alla riparazione degli smartphone

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Aggiustare i telefoni “sempre” e a prezzi accessibili garantirebbe benefici ecologici ed economici. A livello europeo se ne discute anche sotto forma di interventi normativi, non senza lacune. I grandi produttori, però, resistono

Tratto da Altreconomia 261 — Luglio/Agosto 2023

Cerchiamo “smartphone sostenibili” sulla Rete. Oltre al Fairphone, che da dieci anni esatti produce telefoni “etici” per intervenire sulle sfide sociali e ambientali dell’industria elettronica, compaiono tra i primi risultati anche quelli di grandi case produttrici come Apple, Samsung, Realme e di recente anche Nokia, con il nuovo modello G22 e il suo programma di riparazione. Un’apparente apertura del settore verso il cosiddetto “diritto alla riparazione”, in linea con le normative europee che stanno iniziando a tutelare i consumatori.

La campagna europea Right to repair (R2R) -che si batte per il diritto alla riparazione accessibile e conveniente per tutti- ha analizzato i programmi di self repair pubblicizzati da Apple e Nokia. Entrambi presentano aspetti problematici che non sembrano garantire un diritto alla riparazione autentico: cioè costi elevati, tempi lunghi, accesso solo ad alcuni pezzi di ricambio e solo per certi modelli di smartphone. Il riposizionamento delle multinazionali sarebbe quindi solo tattico, nel tentativo di non apparire fermi dinanzi al fermento sia a livello politico europeo sia dei movimenti. La questione è enorme. Un “banale” smartphone contiene infatti più di 60 materiali ed è composto per il 25% da silicio, il 23% da plastica, il 14% da alluminio, il 7% da rame, il 6% piombo, il 2% zinco, l’1% latta e nickel. Vengono poi aggiunti metalli come palladio, argento, oro, cobalto, tantalio, gallio e indio. Sette di questi “ingredienti” sono classificati dall’Unione europea come “materie prime critiche” in virtù della loro importanza economica e dei rischi sociali e ambientali della catena produttiva.

Un cocktail di materiali che ci permette di avere un oggetto multiuso straordinario sempre in tasca ma dalla vita utile relativamente ridotta. È stimato infatti che uno smartphone abbia un ciclo di vita in media di 40 mesi (fonte Strategy analytics), prima che il consumatore lo sostituisca con un nuovo modello data la sua (presunta) obsolescenza. Un mercato che, secondo le stime del portale di ricerca tedesco Statista, nel 2022 ha generato un fatturato complessivo di 419 miliardi euro che per il 72,2% è nelle mani di Samsung, Apple, Xiaomi e Oppo. Con quali impatti ambientali? Dai dati del rapporto “Towards an effective right to repair for electronics” del servizio scientifico della Commissione europea (Jrc) uno smartphone dal ciclo di vita di tre anni produce circa 55 chilogrammi di emissioni equivalenti di CO2 tra realizzazione e utilizzo: due terzi delle quali sono generate in fase di fabbricazione. Per questo è così importante prolungarne la vita il più possibile.

Per smartphone e tablet, i circuiti integrati (Ic), il display e i circuiti stampati (Pcb) hanno il più alto impatto, seguiti dall’involucro e dalla batteria. Ma proprio i display sono la componente che si rompe più spesso: il 41% di tutte le riparazioni riguarda le sostituzioni dello schermo, secondo quanto ricostruito da Open repair alliance, che riunisce diverse realtà che si occupano del tema. In ogni caso, dopo circa 40 mesi termina il ciclo di vita del nostro dispositivo. E non a caso, secondo Eurostat, le apparecchiature elettriche ed elettroniche sono uno dei flussi di rifiuti in più rapida crescita nell’Ue (più 2% all’anno) ma meno del 40% vengono effettivamente riciclati.

I programmi di self repair di Apple e Nokia non garantiscono un vero diritto alla riparazione: costi elevati, tempi lunghi, accesso solo ad alcuni pezzi di ricambio

Secondo l’European environmental bureau (Eeb) estendere di un solo anno la durata degli smartphone -come detto i dispositivi elettronici più impattanti, in termini di emissioni- sarebbe come togliere ogni anno dalle strade europee due milioni di automobili. Ecco perché Right to repair promuove il diritto alla riparazione accessibile e conveniente per tutti e chiede, tra l’altro, l’accesso universale ed equo ai pezzi di ricambio e il divieto di tecniche che limitano l’autoriparazione. Anche grazie alla sua attività, l’Unione europea sta tentando di introdurre nuove normative in questo senso: quelle attualmente in fase di discussione e votazione sono tre.

Il cosiddetto Regolamento Ecodesign (813/2013/Ue) punta a estendere il principio della progettazione eco-compatibile anche a smartphone e tablet, stabilendo requisiti di prestazione e obblighi di informazione per le case produttrici. “Le norme di ecodesign mirano, in teoria, a garantire che gli oggetti elettronici siano facilmente disassemblabili e con pezzi di ricambio disponibili, il tutto per renderli più riparabili -spiega Cristina Ganapini, coordinatrice di R2R per l’Europa-. A oggi però le regole vengono formulate progredendo per singole categorie di prodotto, in linea con le esigenze specifiche: quelle per smartphone e tablet sono state approvate dalla Commissione a fine 2022 e ci attendiamo che vengano ufficialmente pubblicate nei prossimi mesi”.

Il ciclo di vita di uno smartphone prima che il consumatore lo sostituisca con un nuovo modello data la obsolescenza (o presunta tale) del precedente è di circa 40 mesi

All’interno della proposta ci sono elementi positivi: “L’accesso alle informazioni sulla riparazione e ai pezzi di ricambio sarà possibile per sette anni e non solo per operatori professionali ma anche per gli utilizzatori finali, questo è essenziale per rendere il diritto alla riparazione realmente universale. Inoltre, gli aggiornamenti del software dovranno rimanere disponibili per almeno cinque anni dopo che il prodotto è stato ritirato dal mercato, anche perché se abbiamo un telefono ancora funzionante ma che non riceve più aggiornamenti diventa inutile”.

L’economia circolare è strettamente collegata al diritto alla riparazione, perché è in grado di rompere il modello lineare di produzione, consumo e rifiuto. Oltre ai benefici ecologici ci sono anche quelli economici.
Sempre secondo il citato studio del Jrc, le attività di riparazione, riuso e riciclo potrebbero creare fino a 1,2 milioni di posti di lavoro in Europa: “La diminuzione dei lavoratori connessa alle minori vendite di dispositivi digitali sarebbe compensata dalla creazione di impiego di qualità nel settore delle riparazioni -si legge nel report-. Aumentando così la domanda di lavoro a bassa e media qualificazione e di persone con istruzione professionale”.

Una manifestazione organizzata da Right to Repair Europe, coalizione formata da oltre cento organizzazioni di 21 Paesi europei © https://www.facebook.com/righttorepaireurope

Nel testo del Regolamento Ecodesign ci sono però anche lacune importanti. “Il prezzo della riparazione non viene mai trattato -osserva Ganapini-. E questo è un grande limite perché se continua a essere più conveniente acquistare un prodotto nuovo piuttosto che farlo riparare, i consumatori non sceglieranno certo la seconda opzione. E poi c’è il tema della cosiddetta serializzazione delle parti o part pairing”. Questa tecnica, comune nell’industria elettronica, può essere spiegata meglio con un esempio: se abbiamo due smartphone rotti per motivi diversi ma della stessa marca e modello, con componenti originali, si potrebbe pensare di recuperare quelle buone di ciascuno per costruirne uno funzionante. Ma questo non è sempre possibile perché alcune case produttrici -prima tra tutte Apple- utilizzano software che riducono le funzionalità dei prodotti quando vengono utilizzate componenti con un numero seriale diverso da quello abbinato dal fabbricante.

L’ultima grande “opportunità mancata”, dice Ganapini, riguarda l’indice comunitario di riparabilità, ovvero un’etichetta che il consumatore vede sul prodotto: una scala da uno a dieci che permette una scelta consapevole e informata dell’oggetto più duraturo e riparabile. Un indice simile esiste già dal 2021 in Francia, tuttavia quello proposto a livello europeo mancherebbe di un criterio essenziale: il prezzo dei pezzi di ricambio. “Può succedere che uno smartphone riceva un punteggio di nove su dieci perché facilmente smontabile e riparabile, ma poi i ricambi hanno dei prezzi troppo alti”, spiega la coordinatrice di R2R.

In Europa solo il 40% dei rifiuti elettronici viene riciclato in Europa. Secondo le stime dell’European environmental bureau allungare di un solo anno la vita degli smartphone (i dispositivi più impattanti in termini di emissioni di CO2) equivarrebbe a togliere ogni anno dalle strade europee due milioni di automobili

Per quanto riguarda la Direttiva sulle proposte di norme comuni per la riparazione dei beni, il processo legislativo avanza invece lentamente. Ci si aspetta il voto prima delle prossime elezioni europee del giugno 2024 ma non si sa ancora con precisione se e quando questo succederà.  Il testo riguarda principalmente i diritti dei consumatori a vedere riparato il proprio prodotto danneggiato -invece che sostituito- durante il periodo di garanzia, oltre a eventuali obblighi per le case produttrici di offrire servizi di riparazione anche dopo che questo periodo è concluso.

I ritardi nell’iter potrebbero dipendere anche dall’opposizione delle grandi compagnie a riguardo. Corporate europe observatory (Ceo), organizzazione che monitora le attività di lobby delle imprese sui processi decisionali dei principali organismi dell’Unione europea, ha stimato che nel 2021 queste aziende abbiano speso circa 97 milioni di euro per promuovere i propri interessi a Bruxelles. Consultando il Registro per la trasparenza europeo troviamo, tra le altre, proprio le principali case produttrici di smartphone: nel 2022 Apple ha speso ufficialmente tra i 7 e i 7,9 milioni di euro, Samsung tra uno e 1,2 milioni di euro, Nokia una cifra tra i 700-799mila euro.

Le istituzioni austriache coprono il 50% dei costi di riparazione (fino a un massimo di cento euro) per uno smartphone.  Il costo è coperto grazie alle risorse del NextGeneration Eu. In Italia non esistono iniziative simili promosse dalla politica

Accanto a queste due norme c’è infine la Direttiva sulle batterie, che ha ottenuto il voto favorevole del Parlamento europeo il 14 giugno di quest’anno. “Un grande successo per il diritto alla riparazione -afferma Ganapini-. D’ora in poi tutti i nuovi dispositivi portatili e mezzi di trasporto leggeri immessi sul mercato dovranno essere progettati con batterie sostituibili. In molti casi gli utenti saranno in grado di farlo da soli. I produttori dovranno inoltre mettere a disposizione batterie come pezzi di ricambio per almeno cinque anni dopo aver immesso sul mercato l’ultima unità di un modello. Il testo prevede che le batterie di ricambio debbano essere vendute a un prezzo ragionevole e non discriminatorio: terremo d’occhio le case produttrici per assicurarci che questo avvenga”. Anche Ugo Vallauri, co-fondatore della Ong britannica Restart project, parte della campagna R2R, è soddisfatto: “Celebriamo il fatto che i produttori non saranno più in grado di utilizzare la pratica sleale del part pairing nelle batterie, ci aspettiamo questo livello di ambizione per tutti i pezzi di ricambio”.

Se sul piano comunitario si procede gradualmente, alcuni Stati membri si sono attivati per legiferare a livello nazionale. In Francia è in vigore infatti da due anni l’indice di riparabilità obbligatorio per i dispositivi elettronici. L’Austria offre sovvenzioni per la riparazione, rimborsando ai consumatori fino al 50% dei costi totali con un massimo di 100 euro all’anno, grazie alle risorse del NextGeneration Eu. Mentre in Belgio esiste un voucher per gli acquisti ecologici che i datori di lavoro possono dare ai dipendenti e che copre, tra le altre cose, anche la riparazione.

“Attualmente in Italia non esistono iniziative simili sul piano politico, sia per scarsa competenza sia per mancanza di interesse sul tema”, spiega Vallauri. “La prevenzione del rifiuto, tramite la riparazione degli oggetti difettosi, non è percepita positivamente come invece lo è il riciclo delle materie, su cui il nostro Paese eccelle”, aggiunge Francesco Cara, docente di Ecodesign al Politecnico di Milano e attivista del Climate reality project e R2R, nonché coautore del libro “Ecologia digitale” edito da Altreconomia.

Ma all’immobilismo delle istituzioni si contrappone un forte dinamismo di movimenti dal basso. “La campagna per il diritto alla riparazione è partita nel 2018 e nel giro di cinque anni la rete è diventata sempre più capillare -racconta Cara-. Sono due i modelli: i repair café (luoghi fisici in cui avvengono le riparazioni, ndr) con sedi e orari fissi, oppure i restart party organizzati occasionalmente e itineranti, che riuniscono volontari esperti di riparazione e cittadini per aggiustare insieme i dispositivi elettronici”. Tra le tante realtà, solo per citarne alcune, troviamo le romane Reware e Aggiustotutto repair café; il progetto torinese Ri-generation; e l’associazione milanese PCOfficina. Si spera che le ambiziose iniziative locali diventino presto standard comunitari.

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