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Diritti / Approfondimento

Le persone senza dimora non “muoiono di freddo” ma di marginalità e solitudine

© Jon Tyson - Unsplash

Nel 2024 oltre 430 persone senza fissa dimora hanno perso la vita nel nostro Paese, in aumento rispetto alle 399 del 2022. Un fenomeno che riguarda tutte le stagioni e che ha tra le principali cause malori, incidenti, aggressioni, abuso di sostanze e suicidio. L’ipotermia riguarda solamente l’1%. Alla base vi sono lavori usuranti e l’impossibilità di accedere a cure di base. Le risposte spesso emergenziali non cambiano le cose, servirebbero invece soluzioni strutturali

Nel 2024 434 persone senza dimora hanno perso la vita in Italia: erano state 415 nel 2023 e 399 nel 2022. Analizzando i dati, oltre a un costante aumento, salta agli occhi che si muore tutto l’anno, non solo durante l’inverno. Solo l’1% di questi decessi è avvenuto per ipotermia. La prima causa sono i malori (30%), seguito da aggressioni (10%), incidenti di trasporto (10%), abuso di sostanze (8%) e suicidi (8%).

“In strada non si muore di freddo, ma di isolamento, marginalità, solitudine -spiega Caterina Cortese, che per la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (fio.PSD) si è occupata dell’indagineLa strage invisibile”-. I decessi riguardano soprattutto le persone particolarmente isolate, che muoiono anche per malori non necessariamente letali: senza una rete, una famiglia, un aggancio con i servizi sociali, lo stato di salute precipita molto velocemente”. 

Più di due terzi dei senza dimora morti nel 2024 sono stranieri. E quasi uno su cinque ha un’età tra i 18 e i 29 anni. La Lombardia è la Regione con più decessi (18%), seguita da Lazio (12%), Veneto (11%), Campania (10%) ed Emilia-Romagna (9%). “Le persone senza dimora si fermano soprattutto nelle grandi città, dove ci sono più servizi -precisa Cortese-. Il problema è che le risposte sono spesso emergenziali, quando invece servirebbero soluzioni strutturali: appartamenti dedicati ai progetti di housing first, alloggi supportati, strutture per le donne senza casa. Le persone non devono più stare in strada, perché peggiorano solo per il fatto di trovarsi lì”. 

In un’economia capitalistica globalizzata, la povertà è uno dei principali determinanti di salute. “La collocazione sociale influenza la condizione dei malati, determinando perfino gli esiti della malattia”, riporta lo stesso Istituto superiore della sanità. Già nel 1986, con la Carta di Ottawa, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) fissò gli obiettivi per una salute per tutti. “Tra i prerequisiti c’era la pace, l’accesso alla casa, all’istruzione, al cibo, a un lavoro ben retribuito e infine a un ecosistema sostenibile, con un sistema politico ed economico basato su giustizia sociale ed equità -racconta Flavio Lirussi, già consulente per l’Oms ed esperto di disuguaglianze di salute-. Trentacinque anni dopo, nel 2021, l’Oms dà vita alla Carta di Ginevra per il benessere, che vede come prerequisito di una società ‘sana’ una distribuzione equa del reddito e un sistema di protezione sociale che contrasti le disuguaglianze”. 

C’è una relazione circolare tra povertà, condizioni di salute e accesso alle cure. In primis perché la prevenzione e le cure di qualità hanno un costo. Nel 2024 oltre 430mila persone hanno chiesto di ricevere farmaci o cure gratuite perché non se li potevano permettere, un aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. A incidere sono anche gli stili di vita: le persone povere hanno più probabilità di fare lavori usuranti, non riuscire a riscaldare adeguatamente la propria casa, seguire una dieta sbilanciata e non fare esercizio fisico. “I poveri fanno la spesa al discount, che vende prodotti con prezzi più bassi ma con una qualità inferiore -continua Lirussi-. Vivono in zone periferiche, mal servite e con pochi spazi per la socialità. Fumano di più e fanno maggiormente uso di alcol, fattori determinanti per la salute”. 

L’accesso a servizi sanitari di qualità è più difficile per chi vive lontano dai centri urbani. Giulia (il nome è di fantasia), 49 anni, abita in un paese in Campania e, da quando le è stata diagnosticata la sclerosi multipla, ogni mese deve recarsi a Napoli per fare la terapia. “L’ospedale è a meno di cinquanta chilometri da casa, ma con i mezzi pubblici ci metto quasi due ore: per la mia patologia non posso stare seduta così tanto -racconta-. Un accompagnamento privato costerebbe 120 euro ogni volta, e io questi soldi non ce li ho”. Giulia ha chiesto aiuto a Emergency, organizzazione che offre cure gratuite in tutto il mondo, anche in Italia. “Mi accompagnano gratuitamente: se non ci fossero loro sarebbe stata una tragedia”. 

Oltre agli ostacoli economici, esistono anche altri tipi di barriere all’accesso alle cure: linguistiche, digitali, ma soprattutto legate ai documenti. Migranti senza dimora, ma anche persone nate in Italia e ancora senza residenza, sembrano avere un posto di “serie B” nella nostra sanità. Il più grande scoglio è proprio quello della residenza: senza quella non si può richiedere un medico di base o un pediatra, e sono precluse molte prestazioni che dovrebbero essere garantite dai Livelli essenziali di assistenza (Lea). Nel 2024 il Parlamento ha approvato una legge che assicura un medico alle persone senza dimora italiane o straniere che vivono regolarmente in Italia.  

Non tutti coloro che abitano in Italia riescono a ottenere la residenza -approfondisce Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di strada, che per quindici anni si è battuta per ottenere questa legge-. Una persona che viene ospitata da un amico o un parente in una casa popolare non può prendere la residenza lì. Può capitare poi che alcuni Comuni non la concedano con le più varie motivazioni, interpretando la relativa normativa in modo discrezionale”. 

Una legge che garantisce il medico alle persone senza dimora era già stata approvata nel 2021 dalla Regione Emilia-Romagna, dove Mumolo era consigliere. Altre Regioni avevano seguito: Abruzzo, Calabria, Liguria, Marche e Puglia. “Tante persone senza dimora avevano così iniziato a potersi curare -prosegue Mumolo-. Le leggi regionali hanno salvato tante vite, ma quello che serviva era una legge nazionale che restituisse un diritto fondamentale alle persone povere in tutto il Paese”. 

Concretamente, la legge ha istituito un fondo da un milione di euro all’anno per il 2025 e il 2026 per finanziare un programma sperimentale da attuare nelle 14 città metropolitane. “A restare fuori sono tutti coloro che vivono in contesti più periferici, dove spesso ci sono meno servizi -afferma Mumolo-. Per questo, la prossima battaglia sarà estendere la legge oltre le 14 città metropolitane, su tutto il territorio nazionale”. 

A non poter beneficiare della legge ci sono poi gli stranieri che non hanno il permesso di soggiorno, i cosiddetti “non iscritti” al Servizio sanitario nazionale, che possono comunque usufruire dell’assistenza sanitaria attraverso alcuni codici come il codice Straniero temporaneamente presente (Stp) e quello di Europei non iscritti (Eni). Questi strumenti, però, permettono di ricevere solo le prestazioni essenziali, e a volte nemmeno quelle.  

Da un po’ sentivo un dolore al seno, un giorno sono andata al pronto soccorso e mi hanno detto che era un tumore”. Iryna (nome di fantasia), ucraina, è arrivata in Italia otto anni fa. Lavora in nero come badante. Non avendo un contratto, non può ottenere il permesso di soggiorno né il codice fiscale, e così di fatto non ha mai avuto accesso al Servizio sanitario nazionale. In ospedale le hanno consigliato di rivolgersi al suo medico curante ma lei non ne ha mai avuto uno. Iryna allora ha chiesto aiuto a Emergency: è riuscita così a ottenere un codice Stp e un mese dopo si è operata. “Dopo l’intervento mi volevano far pagare la chemioterapia -denuncia-. Se non ci fosse stato qualcuno con me, non mi avrebbero mai curato”. 

Anche Cristina (nome di fantasia), 28 anni, è riuscita a far valere i propri diritti grazie all’intervento di Emergency. Nata in Romania, da molti anni vive a Milano, ha due figli e abita in subaffitto in un appartamento occupato. Il suo compagno lavora saltuariamente, i soldi sono pochi. “Quando mi sono accorta di essere incinta ero all’ottava settimana. Sono andata al pronto soccorso, da lì mi hanno mandata al consultorio. Mi hanno chiesto di pagare per la visita perché non avevo la tessera sanitaria. Volevo abortire ma non sapevo come fare: il tempo passava e c’erano le festività di mezzo”. Si reca allora all’ambulatorio per l’interruzione volontaria di gravidanza, dove la visitano e poi le chiedono i documenti. “Quando hanno capito che non ero iscritta al servizio sanitario, mi hanno chiesto di pagare 900 euro”. Cristina si rivolge allora a Emergency. “Abbiamo chiamato gli uffici, chiarito la situazione e cercato di capire quale fosse il problema”, spiega Loredana Carpentieri, responsabile dell’ambulatorio mobile di Milano di Emergency. “A volte basta che le persone non siano lasciate sole, altrimenti il diritto alle cure non verrebbe garantito”. 

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