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Diritti / Approfondimento

Roma apre una breccia nel muro di ostacoli per il diritto alla residenza

Manifestazione in favore della deroga all’articolo 5 davanti alla prefettura di Roma nel novembre 2022 © Ylenia Sina

Una legge del 2014 impedisce a chi occupa un immobile l’iscrizione all’anagrafe e l’allaccio delle utenze: persone in difficoltà abitativa spesso faticano a esercitare i loro diritti. La capitale procede in deroga e altre città potrebbero seguirla

Tratto da Altreconomia 256 — Febbraio 2023

Quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, nell’occupazione di viale delle Province a Roma le persone senza residenza hanno avuto problemi a curarsi. Non avevano il medico di base e senza tessera sanitaria non potevano essere tracciate né effettuare tamponi per rientrare al lavoro”, racconta Margherita Grazioli, ricercatrice e attivista del Movimento per il diritto all’abitare. Senza un quadro chiaro della situazione, tutto il palazzo rischiava di diventare una “zona rossa”, così come accaduto a un’altra occupazione. “Per evitarlo e garantire la salute di tutti ci siamo attivati ottenendo dall’Asl una mappatura manuale in grado di affrontare ogni caso”, ricorda.

Nella primavera del 2020 i problemi degli abitanti di viale delle Province, in una zona semi-centrale della capitale, si sono ripetuti simili in molte altre occupazioni e insediamenti informali della città: uno degli effetti della legge 80 del 2014, conosciuta anche come Piano casa Renzi-Lupi, che all’articolo 5 vieta a chi occupa abusivamente un immobile di ottenere la registrazione anagrafica e l’allaccio di servizi pubblici come acqua e gas. Oggi a Roma la situazione potrebbe essere diversa. Il 19 dicembre 2022, infatti, è diventata operativa la direttiva con la quale il sindaco Roberto Gualtieri ha ordinato agli uffici anagrafici di procedere in deroga all’articolo 5 (così come previsto dalla legge stessa) per categorie considerate “meritevoli di tutela”: famiglie seguite dai servizi sociali o con persone con disabilità a carico, minori e over 65 e quelle con un reddito inferiore a 21.190 euro, tetto massimo per l’accesso all’edilizia pubblica nel Lazio.

Il “divieto di chiedere la residenza e l’allaccio ai servizi” lede i “diritti fondamentali della persona e della dignità umana”, ha scritto Gualtieri nella direttiva del 4 novembre 2022. Per l’assessore alle Politiche abitative Tobia Zevi, inoltre, la legge 80 “non ha impedito una sola occupazione, viceversa ha creato difficoltà enormi a persone che dovrebbero essere tutelate”. La residenza, infatti, è un requisito necessario per accedere a una serie di diritti: servizi sanitari come l’assegnazione del medico di base o del pediatra, misure di welfare come il reddito di cittadinanza, iscrizione alle liste elettorali per il voto, all’asilo, alla mensa scolastica o ai centri per l’impiego.

Alla direttiva si è arrivati dopo una mozione favorevole approvata nel giugno 2022 dalla maggioranza di centrosinistra in Consiglio comunale, a sua volta frutto della lunga vertenza sostenuta da un gruppo di realtà, tra le quali il Movimento per il diritto all’abitare, A Buon Diritto, ActionAid, Asgi Lazio, Medici senza frontiere e Nonna Roma, che da anni denunciano le conseguenze dell’articolo 5. Queste realtà hanno definito la deroga “uno spartiacque” e “un’ottima notizia per moltissime persone”. Non sono però mancate critiche, legate al fatto che il testo della circolare che ha attuato la direttiva sia stato modificato in seguito a un tavolo di confronto con la prefettura e con la questura di Roma. In particolare sono stati esclusi dalle categorie “meritevoli di tutela” tutti coloro che, nei cinque anni precedenti alla dichiarazione, hanno riportato condanne di secondo grado per una cinquantina di reati, che vanno dall’associazione di stampo mafioso alla corruzione, passando per lo spaccio e l’usura, o sono stati destinatari in via definitiva di misure di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, provvedimento che spesso colpisce anche gli attivisti (la deroga resta applicabile in caso di famiglie con minori, disabili o anziani).

In otto anni le proposte di legge per l’abrogazione dell’articolo 5 non hanno mai raggiunto la maggioranza in Parlamento

“L’ultimo atto di questa vicenda è ricco di ambivalenze: rende fattuale la deroga ma restringe l’ambito di applicazione”, è stato il commento di movimenti, associazioni e Ong che rifiutano che la residenza “possa essere utilizzata per finalità punitive” e ribadiscono la necessità di continuare a battersi affinché la norma venga cancellata. A livello nazionale la direttiva applicata da Roma Capitale segna comunque un momento di discontinuità. In otto anni le proposte di legge per l’abrogazione dell’articolo 5 non hanno mai raggiunto la maggioranza in Parlamento e il fronte non è mai stato compatto nemmeno all’interno del centrosinistra e tra le fila del Pd. Inoltre Gualtieri è il primo sindaco in Italia ad aver deciso di avvalersi della deroga. Solo Palermo, a partire dal 2019, l’ha concessa, ma alle famiglie in attesa di sanatoria nelle case popolari e con l’emanazione di singole determine firmate dal sindaco. In tutte le altre città chi non può registrarsi con il criterio della dimora abituale, lo fa con quello del domicilio, dichiarando che il Comune in questione è il centro dei “propri affari e interessi”. Una procedura inizialmente prevista per non escludere dai diritti connessi alla residenza i senza fissa dimora, che vengono registrati a un indirizzo virtuale o fittizio. Secondo l’Istat, in Italia nel 2021 erano iscritte in questo modo 96.197 persone, il 38% delle quali straniere. La metà era concentrata in sei Comuni: Roma in cima, con il 23% (oltre 22mila), seguita da Milano con il 9%, Napoli con il 7%, e infine Torino, Genova e Foggia con meno del 5%.

In questi numeri ci sono anche le persone finite nelle maglie dell’articolo 5: occupanti e affittuari in nero che non possono dimostrare il titolo di godimento dell’immobile. Nonostante la residenza virtuale sia un’iscrizione anagrafica a tutti gli effetti non è sempre priva di complicazioni. Nel 2019, per esempio, A Buon Diritto ha impugnato, vincendo, il rifiuto della questura di Roma di accettare la residenza virtuale per il rinnovo di un permesso di soggiorno per una titolare di protezione internazionale. Per ogni caso intercettato, però, ce ne sono decine che non riescono a superare questi ostacoli burocratici.

Sono 22 le persone che hanno registrato la propria residenza presso un indirizzo virtuale o fittizio nel Comune di Roma nel 2021. A livello nazionale il fenomeno riguarda oltre 96mila persone: il 23% si concentra nella capitale, il 9% a Milano il 7% a Napoli

Nel mirino c’è anche il modo in cui avviene la registrazione: nella maggior parte dei Comuni si accede tramite i servizi sociali o le associazioni di volontariato incaricati di verificare che la persona viva davvero sul territorio. In un rapporto sui senza dimora nella capitale, l’associazione Nonna Roma scrive che questa modalità ha contribuito al diffondersi di prassi “discrezionali e illegittime” a causa delle richiesta di alcuni uffici di “requisiti aggiuntivi” o di “documentazione non prevista dalla normativa”. Accade anche a Napoli: “Uno dei principali problemi è la varietà di pratiche in diverse municipalità”, dice Yuri Borghetto di ActionAid.

Anche i tempi di attesa sono lunghi. “A Milano quando tutto va bene ci vogliono due mesi per avere l’appuntamento con l’ufficio incaricato di inoltrare all’anagrafe le comunicazioni. Nella primavera del 2022 siamo arrivati anche a sette -denuncia Cesare Mariani del Naga, associazione attiva nella difesa dei diritti dei cittadini stranieri-. Dal primo aprile al primo agosto il servizio è stato addirittura sospeso perché il bando che lo finanziava era scaduto. I ritardi non sono privi di conseguenze: non solo nel frattempo si resta senza diritti, ma non si accumula nemmeno l’anzianità di iscrizione necessaria, per esempio, per presentare domanda di casa popolare o per chiedere la cittadinanza”. Nei prossimi mesi, fanno sapere dal Comune di Milano, oltre ai cinque sportelli già attivi ne apriranno altri due. “Non è la prima volta che le politiche anagrafiche vengono usate dal legislatore per escludere una parte della popolazione dall’esercizio dei propri diritti”, commenta Enrico Gargiulo, docente di Sociologia all’Università di Bologna e autore del libro “(Senza) residenza. L’anagrafe tra selezione e controllo” (Eris, 2022).

“Non dovremmo dimenticare che per legge la residenza non si chiede, si dichiara. Non è una concessione ma un diritto” – Elena Apollonio

“La legge ‘contro l’urbanesimo’ del 1939 impediva di ottenere la residenza nelle città in assenza di un contratto di lavoro, costringendo migliaia di italiani a vivere da irregolari nel loro stesso Paese. È stata abrogata solo nel 1961 -spiega-. Nel 2007 centinaia di sindaci del Nord Italia emanarono ordinanze che restringevano l’accesso alla residenza con l’intento di limitare la presenza di migranti nei propri Comuni o comunque di escluderli da benefici e servizi. Infine, nel 2018, Salvini ha tentato di farlo con i richiedenti asilo. Decisione poi giudicata incostituzionale”. La deroga approvata dalla capitale ha smosso le acque a Torino dove, a novembre 2022, la consigliera di Democrazia solidale, Elena Apollonio, insieme a due colleghi del Partito democratico, ha sottoscritto una proposta di mozione che, a metà gennaio, è al vaglio della commissione Diritti e pari opportunità, in attesa di approdare in Consiglio. “Anche a Torino le persone che vivono in modo informale riscontrano problemi legati alla residenza: occupanti, ma soprattutto tanti studenti senza contratto -spiega Apollonio-. Non dovremmo dimenticare che per legge la residenza non si chiede, si dichiara. Non è una concessione ma un diritto”.

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