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L’appello degli accademici al governo per lo stop ai progetti di ricerca con Israele

Il villaggio di a-Duqaiqah, nelle colline meridionali di Hebron, non è collegato alla rete idrica. Gli abitanti del villaggio acquistano l'acqua dai camion dell'acqua, pagando 4 volte di più della tariffa media dell'acqua per uso privato in Israele. © Nasser Nawaj'ah, B'Tselem, 19 agosto 2012

Il ministero degli Esteri ha appena pubblicato un nuovo bando per progetti congiunti su tecnologie ottiche e agricole, tra cui l’accesso all’acqua. “Non è escluso un possibile utilizzo militare”, denunciano i promotori della lettera, chiedendo al ministro Tajani di fermare l’accordo. C’è il rischio di violare il diritto internazionale e umanitario

Centinaia di accademici e accademiche italiane chiedono al ministero degli Esteri di interrompere l’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con Israele. Nella lettera inviata a fine febbraio al ministro Antonio Tajani si sottolinea il rischio che tale collaborazione violi il diritto internazionale e umanitario. “Non sono previste clausole specifiche che escludono a priori un utilizzo militare dei prodotti della ricerca -spiega ad Altreconomia Paola Rivetti, professoressa di Scienze politiche e internazionali alla Dublin city University e membro del comitato estensore della lettera-. Questo ci preoccupa perché l’Italia rischia di diventare complice di quelli che la Corte penale internazionale sta valutando come crimini di guerra nonché rispetto al rischio plausibile di genocidio individuato dalla Corte internazionale di giustizia. Interrompere queste collaborazioni oggi è doveroso”.

La presa di posizione dei docenti è arrivata a seguito della pubblicazione da parte del ministero, proprio a fine febbraio 2024, del bando per la selezione di 11 progetti “congiunti di ricerca italo-israeliani” della durata di tre anni per un totale di 1,1 milioni di euro coperti, lato Tel Aviv, dal ministero della Scienza, della tecnologia e dello Spazio (Most). Secondo gli estensori della lettera, la linea di intervento più problematica è la terza. Si chiede infatti alle Università di presentare progetti per lo sviluppo di “ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche per applicazione in frontiera, come i rilevatori di onde gravitazionali di nuova generazione”.

“Qui ci si potrebbe riferire a device di sorveglianza che potrebbero essere utilizzati anche con scopi bellici -aggiunge Rivetti-. E non ci sono rassicurazioni sul fatto che questo non possa avvenire. Questo aggraverebbe le responsabilità internazionali del nostro Paese”. In un contesto in cui, come ricostruito dall’inchiesta di Altreconomia, il governo italiano ha continuato a esportare armi e munizioni verso Tel Aviv a seguito del 7 ottobre.

Anche le altre due aree di ricerca non sono esenti da problemi. Riguardano lo “sviluppo di nuovi fertilizzanti e impianti del suolo” e innovazione riguardante le “tecnologie idriche” come il “trattamento dell’acqua potabile, industriale e fognaria”. “Entrambe sono a nostro avviso eticamente molto problematiche. In questo momento, a Gaza, l’accesso all’acqua e al cibo viene utilizzato come strumento di guerra. Migliaia di persone corrono il rischio di morire di fame, e i primi casi si sono verificati nel Nord della Striscia”, sottolinea Rivetti. Ma non solo. “Da ben prima del 7 ottobre, l’accesso alla risorsa idrica veniva utilizzato come strumento di controllo e colonizzazione in territori come la Cisgiordania”.

A inizio giugno 2023 un report della Ong israeliana B’Tselem aveva ricostruito come i cittadini israeliani, compresi quelli che vivono negli insediamenti, consumano in media 247 litri d’acqua pro-capite al giorno, tre volte la quantità dei palestinesi nella West Bank (82,4 litri). “È difficile non preoccuparsi di fronte a ricerche che si occupano proprio di questo aspetto”, conclude Rivetti.

Nella lettera si elencano i tragici numeri di contesto. “Come dimostra il report compilato dalla London School of Hygiene and Tropical Medicine, il Health in Humanitarian Crises Centre e il John Hopkins Center for Humanitarian Health -si legge- nei prossimi sei mesi a Gaza potrebbero morire tra le 60mila e le 75mila persone a causa dell’assenza di cibo, acqua e di minime condizioni igieniche che impediscano la diffusione di malattie ed epidemie”. E poi c’è il tema di quello che i firmatari definiscono “scolasticidio”. Negli ultimi quattro mesi il sistema educativo di Gaza è stato annientato. “Al 24 gennaio 2024, Israele ha ucciso 4.327 studenti e ne ha feriti 8.109, oltre a 231 insegnanti e amministratori a cui si aggiungono 756 feriti. Il numero di studenti e personale scolastico uccisi in un periodo così breve non ha precedenti nella storia della regione”. A questo si aggiunge la “sistematica distruzione di tutte le università di Gaza” e il danneggiamento della “maggior parte degli edifici scolastici di Gaza”.

“Non credo nel valore intrinseco della collaborazione tra Università italiane e israeliane: l’interruzione di collaborazioni, in altri termini, non penso che possa allontanare gli orizzonti di pace” – Paola Rivetti

Al 5 marzo erano quasi 1.200 le firme dell’appello rivolto al ministro Tajani. Dal Maeci, per ora, non è arrivata ancora nessuna risposta: le proposte potranno essere inviate, da parte degli Atenei, entro il 10 aprile 2024. Quello che è certo è che la collaborazione con gli enti israeliani è stretta e dura da diversi anni come ricostruito dal sito “Stopwapenhandel”, un’organizzazione olandese indipendente di ricerca e campagna che ricostruisce il ruolo delle università nell’industria dell’armi. Un legame sempre più stretto in cui spiccano accordi tra i principali Atenei italiani, dal Politecnico di Torino e Milano all’Università di Bologna, e le maggiori compagnie d’armi israeliane come Eblit, l’Israel aerospace industries e Rafael.

“Non credo nel valore intrinseco della collaborazione tra università italiane e israeliane: l’interruzione di collaborazioni, in altri termini, non penso che possa allontanare gli orizzonti di pace -sottolinea Rivetti-. Purtroppo le università e le comunità accademiche sono da secoli complici di violazioni di diritti umani e rispecchiano la società come ogni altro settore della vita pubblica”. Per la docente, però, tra le promotrici della lettera con altri 23 colleghi e colleghe, il clima nel mondo e in Italia sta cambiando. “Nel febbraio 2024 -si legge nella lettera- l’Università della California Davis ha disinvestito 20 milioni di dollari dalla collaborazione con aziende complici dell’occupazione e dell’assalto militare in corso, e lo stesso hanno fatto quattro università norvegesi”.

Per i firmatari, la speranza è che succeda presto anche nel nostro Paese. “Questa lettera ha trovato diversi riscontri, che crescono giorno dopo giorno. Sempre più persone sono preoccupate per le gravi violazioni del diritto internazionale a cui stiamo assistendo. Ieri, all’inaugurazione dell’anno accademico a Pisa, uno studente italo-palestinese è stato invitato a parlare. Sono segnali importanti e sappiamo che l’interruzione dei rapporti è uno degli strumenti tattici di pressione che possono incidere, insieme ad altre iniziative e tipi di pressione da esercitare a tutti i livelli, come venne fatto per il Sud Africa dell’apartheid”.

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