Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Opinioni

Nella Striscia di Gaza sta morendo anche il giornalismo

Un momento della manifestazione che si è svolta a Londa il 29 ottobre 2023. Issam Abdullah era un giornalista dell'agenzia Reuters, è stato ucciso dall'esercito israeliano nel Sud del Libano il 13 ottobre © Alisdare Hickson

In Italia è mancato e manca un dibattito pubblico sul massacro e sulle scelte delle élite politiche. Chi osa parlarne è un eretico. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 268 — Marzo 2024

Nella Striscia di Gaza sta morendo anche il giornalismo. Un crudele massacro, forse un genocidio, sta avvenendo sotto i nostri occhi e nello spazio pubblico non si riesce a discuterne davvero. Né si è affermata una narrazione dei fatti (atroci, non giustificati nemmeno dall’orrore degli eccidi del 7 ottobre) capace di sottrarsi ai sospetti, alle allusioni, a volte alle accuse esplicite di complicità con i “terroristi di Hamas” o addirittura di antisemitismo. 

Il giornalismo nella Striscia di Gaza muore anche fisicamente. Il sito d’inchiesta francese Mediapart ha pubblicato un dossier con le foto e le biografie di 81 giornalisti e operatori dell’informazione palestinesi uccisi dall’esercito israeliano a partire dall’avvio delle operazioni militari. Sono volti di sconosciuti, storie private e professionali ignorate da tutti e peggio che dimenticate, dal momento che l’indifferenza è cominciata con la mancata indignazione dei loro colleghi di altri Paesi, con l’inesistente reazione della categoria.

Mediapart ricorda che “i soli giornalisti che dopo il 7 ottobre possono documentare ciò che avviene a Gaza sono palestinesi”, visto che Israele non ammette l’ingresso di cronisti nella Striscia se non al proprio seguito, cioè sotto il proprio controllo. I reporter palestinesi, aggiunge Mediapart, “lavorano in condizioni apocalittiche, sotto le bombe e in un blocco totale, temendo per le proprie vite e per quelle dei loro familiari”. Nonostante tutto, hanno prodotto informazione in presa diretta, senza però fare davvero breccia nei media occidentali.

Com’era avvenuto due anni fa con l’aggressione russa all’Ucraina, anche stavolta il giornalismo “ufficiale” (le maggiori testate, i media più diffusi) specialmente in Italia non è riuscito a suscitare un dibattito aperto. Si è schierato, quasi istintivamente, con le élite politiche, quindi a incondizionato sostegno di Israele e della sua risposta militare, giudicata a un certo punto “eccessiva” perfino dal presidente degli Stati Uniti, il prudentissimo Joe Biden. 

Il governo italiano, ad esempio, ha preso una decisione gravissima come il taglio dei fondi all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che da decenni garantisce assistenza e rifornimenti vitali ai rifugiati palestinesi. Lo ha fatto senza alcun dibattito né una valutazione pubblica, dando semplicemente seguito a una denuncia di Israele, secondo la quale una manciata di dipendenti Unrwa avrebbe favorito in qualche modo gli attentati del 7 ottobre. 

I giornalisti morti nella Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 secondo il Sindacato dei giornalisti palestinesi (Pjs) a metà febbraio 2024 sono stati 119. Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ne ha contati 85, di cui 78 palestinesi. Per la Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj) sono 99, di cui 92 palestinesi.

E quando è capitato che qualcuno, in momenti di grande visibilità mediatica, abbia osato dire ciò che il “canone” non prevede (è successo al Festival di Sanremo, prima con la canzone in gara e poi con l’affermazione “Stop al genocidio” del coraggioso rapper Ghali) ecco che invece di un dibattito, un approfondimento, un’apertura è scattata una plateale dissociazione dei vertici del servizio pubblico. Seguita poi da una sterile schermaglia tra partiti, con Ghali abbandonato alla sua sorte di “eretico” per avere osato citare una nozione, “genocidio”, espulsa dal resoconto giornalistico e politico, eppure legittimata, almeno in via di ipotesi, dai giudici della Corte internazionale di giustizia.

I vocabolari della lingua italiana accettano un termine inglese, embedded, specificando che si è diffuso a partire dal 2003 per indicare il giornalismo al seguito, e quindi alle dipendenze, degli eserciti in azione (era l’epoca della guerra in Iraq): è un modo di fare informazione, o meglio di non farla, che è diventato prevalente.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati