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Diritti / Attualità

Il conflitto in Sudan ha causato il maggior numero di bambini sfollati al mondo

Il campo profughi di Adre in Ciad © Damiano Duchemin, Croce Rossa italiana

A un anno dall’inizio degli scontri tra le forze governative e quelle di Supporto rapido la situazione per i profughi è drammatica. Il Paese è sull’orlo della carestia e la popolazione rischia il reclutamento forzato in una delle due fazioni (entrambe responsabili di gravi violenze). Al confine con il Ciad si formano campi profughi spontanei. Il racconto degli operatori umanitari

A un anno dallo scoppio del conflitto armato in corso Sudan, tra le Forze di supporto rapido (Fsr) capitanate da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, e le Forze armate sudanesi (Fas), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, anche leader della giunta militare, la situazione nel Paese è drammatica. Dal 15 aprile 2023 migliaia di persone sono state uccise o ferite dagli attacchi compiuti da entrambe le fazioni e più della metà della popolazione ha ora bisogno di aiuti umanitari. Nel Paese incombe il rischio di una carestia e il sistema sanitario nazionale è sull’orlo del collasso.

Gli sfollati sudanesi hanno raggiunto quota 8,5 milioni e sempre più persone fuggono verso i Paesi limitrofi”, spiega ad Altreconomia Damiano Duchemin, coordinatore dei programmi per l’Africa della Croce Rossa italiana e da poco rientrato da un sopralluogo nel Ciad orientale. Al confine con il Darfur sono sorti spontaneamente diversi campi profughi: “In questi campi, che ospitano centinaia di migliaia di persone scappate dal Sudan, i problemi di salute sono numerosi, vanno dalle ferite da arma da fuoco a problematiche di tipo psico-sociale, e i bisogni sono enormi”. Per l’Unicef si tratta della peggiore crisi di bambini sfollati al mondo e la stessa agenzia Onu avvisa che la combinazione letale di malnutrizione, sfollamento di massa e malattie potrebbe causare più decessi del conflitto stesso.

“Resta una crisi che presenta grandi sfide in termini di aiuti umanitari”, continua Duchemin, ricordando che il Programma alimentare mondiale (Wfp) ha dovuto interrompere le sue operazioni per la revoca dei permessi per far transitare i convogli di camion dal Ciad verso il Darfur. “Personalmente ho trovato impressionante la situazione del campo profughi di Adre, una struttura spontanea composta da baracche estese a perdita d’occhio. Nella cittadina ciadiana di Adre in questo momento ci sono più rifugiati che abitanti; la pressione esercitata su questi posti dai flussi migratori è enorme, se consideriamo che il Paese è già in grande difficoltà per la povertà diffusa e gli effetti della crisi climatica. Quello che mi ha colpito del campo di Adre è l’altissima presenza di donne e bambini, arrivati a piedi dal Sudan”, ricorda il funzionario della Croce Rossa.

Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) donne e bambini rappresentano il 90% dei rifugiati in Ciad e questa situazione potrebbe essere in parte dovuta alle violenze compiute dai paramilitari delle Fsr nei confronti degli individui di sesso maschile della popolazione non araba masalit. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha definito tali atrocità come parte di una campagna di pulizia etnica compiuta nel Darfur occidentale. 

Già a dura prova per l’alto numero di rifugiati etiopi scappati dalla guerra del Tigrai, la situazione è precaria anche nell’Est del Paese. Amira (nome di fantasia per garantire l’anonimato dell’intervistata) è un’operatrice umanitaria sudanese di 33 anni, al momento basata a Gadaref, nel Sudan orientale. Racconta telefonicamente ad Altreconomia che il conflitto si sta spostando verso quella che di fatto è la nuova capitale amministrativa, Porto Sudan. “A Gadaref vige un coprifuoco dalle sei di sera alle sei di mattina e nessuno sa bene che cosa stia succedendo, anche perché internet non sempre funziona e le notizie che otteniamo vengono più dai social media che dai giornali”.

A tal proposito Amnesty international riporta che dall’inizio del conflitto sia le forze dell’esercito nazionale sia i paramilitari hanno strumentalizzato l’accesso a internet per controllare il flusso di informazioni, violando il diritto internazionale e contribuendo ad aggravare la crisi umanitaria. A confermare il legame tra disinformazione e insicurezza, è anche una recente pubblicazione dell’Africa center for strategic studies che riferisce come entrambe le parti in conflitto avrebbero diffuso affermazioni contraddittorie sui territori occupati e sui risultati dei combattimenti, creando un ambiente molto pericoloso per i civili; in aggiunta, le potenze regionali e straniere con interessi diretti nel conflitto in corso (la pubblicazione parla di Russia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto) avrebbero giocato un ruolo attivo nella disinformazione a favore di una o dell’altra fazione.

“Qua a Gadaref le strade e le scuole sono piene di sfollati e i bambini hanno iniziato a dover lavorare -riprende Amira-. Anche trasferire o ricevere denaro non è facile, dietro alle operazioni finanziarie si è creato un business enorme”. A causa dei ripetuti blocchi a internet i sudanesi faticano a trasferire e ricevere denaro. “Molti miei conoscenti hanno lasciato il Paese, cosa non facile, l’unico modo per farlo è via terra ed è molto costoso. Personalmente, anche se volessi andarmene da qua non lo farei, la mia famiglia dipende economicamente da me e se lasciassi il Paese non potrei più occuparmi di loro”, continua Amira.

Ma chi resta deve scappare in continuazione dalle dinamiche imprevedibili degli scontri e gli uomini corrono il rischio di essere reclutati da uno dei due gruppi rivali. “Il governo ha lanciato una campagna nazionale di arruolamento per rinforzare l’esercito. Chi vuole ottenere un’arma deve semplicemente fornire un documento identificativo e compilare un’apposita richiesta. Le pistole ricevute possono essere usate per la sicurezza privata e per affiancare i soldati nelle loro operazioni. Proprio il 9 aprile c’è stato un bombardamento a Gadaref da parte delle Fsr che hanno tentato di attaccare una zona di reclutamento dell’esercito nazionale”, spiega Amira dicendosi preoccupata per questa proliferazione di armi e aggiungendo che se da un lato i paramilitari di Hemeti rubano, uccidono e violentano, dall’altro neanche le forze militari governative sembrano propensi a riportare la democrazia, ma nonostante questo molti civili si schierano con loro. Vale la pena ricordare che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha rilevato numerosi abusi e crimini di guerra commessi da ambe le parti, come l’uso spropositato della violenza sessuale.

Ventisettenne originario di Khartum, Musa (nome di fantasia per garantire l’anonimato dell’intervistato) è un architetto che nell’aprile dell’anno scorso si trovava in Italia. Ora si domanda in continuazione quando mai potrà fare rientro nel suo Paese. “La mia famiglia è ancora in Sudan ma ha dovuto abbandonare Khartum. Ottenere i visti per l’estero è quasi impossibile e i voli aerei sono inesistenti. Chi se lo può permettere si sposta in Egitto dove, tuttavia, le difficoltà non mancano e i costi da sostenere per un alloggio e i beni di prima necessità sono spesso fuori portata per chi è scappato”, racconta Musa. “In Italia mi sembra che non si parli molto di questo conflitto, forse lo scarso interesse è dato dalla scala locale dei combattimenti -conclude Musa-, ma non dimentichiamoci che quella che era iniziata come una lotta di potere tra due rivali principali, si è ora trasformata in un conflitto che coinvolge molti attori, fra gruppi ribelli, milizie e potenze straniere interessate alla presenza di oro e altre risorse”.

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