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Esteri / Approfondimento

L’ospedale ugandese che da sessant’anni offre cure accessibili

Due infermiere del Lacor hospital. Tutti i 699 dipendenti della struttura sono ugandesi, tra cui oltre 40 dottori tra medici di base e specialisti © Andrea Simeone

Il Lacor hospital è stato fondato da Pietro Corti e Lucille Teasdale con l’idea di fornire alla popolazione del Paese i mezzi e le conoscenze per dirigere la struttura. A oggi il personale, medici compresi, è interamente ugandese

Tratto da Altreconomia 267 — Febbraio 2024

C’è chi riesce nel “piccolo” a intravedere già quello che potrebbe diventare. Quando, all’inizio degli anni Sessanta, Piero Corti e Lucille Teasdale arrivarono a Lacor, nel Nord dell’Uganda, i letti disponibili nel piccolo ospedale erano una trentina ma i due dottori sapevano che il loro costruire l’oggi passava inesorabilmente dalla necessità di garantire un domani a quella struttura. E così l’idea, fin da subito, era stata quella di formare il personale del posto, dagli infermieri ai tecnici di laboratorio. “Accusavano mio padre di avere un approccio ‘brianzolo’ alla cooperazione -racconta la figlia Dominique Corti, presidente dell’omonima Fondazione– di voler costruire una cattedrale nel deserto perché al centro del suo agire metteva la professionalità, non la beneficenza”. Quella trentina di letti oggi sono diventati più di 550: le migliori cure possibili, al maggior numero di persone, al minor costo, questo è stato il motto che ha reso possibile questa crescita.

Il Lacor hospital e i suoi tre centri sanitari garantiscono cure a più di 208mila pazienti all’anno, con 699 dipendenti tutti ugandesi. “Più di 40 sono dottori tra medici di base e specialisti che si occupano di chi ha bisogno -racconta ad Altreconomia Emmanuel Ochola, uno dei direttori della struttura- soprattutto mamme e bambini che rappresentano quasi l’80% dei pazienti”. In numeri assoluti, più di 114mila donne e 52mila minori tra zero e 12 anni: una priorità fotografata anche dai dati sull’elevata mortalità neonatale (19 ogni mille nati vivi nel 2021) e infantile (42 ogni mille nella fascia d’età 0-5 anni). Conseguenza di un contesto in cui, secondo gli ultimi dati della Banca mondiale, nel 2019 il 48% dei bambini fino a 16 anni viveva al di sotto della soglia di povertà.

“L’ospedale si trova in un’area del Paese estremamente deprivata che si inserisce in un contesto geografico altrettanto difficile. L’Uganda è il Paese che ospita più sfollati di tutta l’Africa: quasi due milioni -continua Corti-. Sono arrivati oltre 1,2 milioni di rifugiati dal Sud Sudan, che confina a Est con una regione del Kenya non molto ‘sviluppata’ così come quella della Repubblica Democratica del Congo a Ovest. Se poi si considera che le regioni settentrionali dell’Uganda escono da un conflitto trentennale, concluso nel 2007, si capisce quanto sia importante l’aver offerto cure accessibili a chi non può permettersele”.

I pazienti, infatti, coprono solo il 22% delle spese dell’ospedale: a chi può permetterselo viene richiesto un contributo simbolico. Il resto dei 6,5 milioni di euro di costi annui è coperto da donatori (43%) e dal lavoro di fundraising della Fondazione Corti (23%). Le voci di spesa più alte riguardano il personale (42%) e i farmaci (39%) seguite da quelle per l’amministrazione e il trasporto (11%) e i materiali vari come alimentari, cancelleria e prodotti per l’igiene (8%). Solo una piccola cifra è destinata a costi infrastrutturali. “Per far sopravvivere un ospedale serve sostenere le spese -sottolinea Corti-. Un concetto semplice che però spesso non troviamo in tanti altri progetti. Durante gli anni della crisi dell’Aids, ad esempio, sono state costruite intere strutture specialistiche che prendevano in carico i pazienti solo per quell’infezione ma i bambini, nel frattempo, continuavano a morire di malaria. E poi, quando la ‘moda’ passa e si spegne l’interruttore dei finanziamenti, spesso crolla”. Oggi invece il Lacor hospital è l’unico di tutta l’Africa equatoriale ad avere acqua potabile corrente.

Il 48% dei bambini da zero a 16 anni che vive al di sotto della soglia di povertà in Uganda. Anche la mortalità infantile e neonatale sono elevate

Fin dall’apertura dell’ospedale di Lacor sono i medici che vi lavorano a dirigerlo. Prima i genitori di Dominique Corti, poi i dottori ugandesi che nei primi anni Novanta hanno deciso di entrare a far parte della direzione e dal 2008 non c’è più nessun expat nel consiglio direttivo. L’agenda delle priorità non è in mano alla Fondazione Corti, nata più di trent’anni dopo la fondazione dell’ospedale, ma in quelle dei tre direttori del presidio sanitario.

“Per la popolazione adulta le principali cause di morte sono malaria, incidenti, problemi gastrointestinali e dentistici -sottolinea il dottor Ochola-. Queste sono le priorità in cima al nostro piano strategico”. Dato che la capitale Kampala si trova a 360 chilometri di distanza, per più di 750mila persone il Lacor hospital rappresenta l’unica possibilità per trattare certe patologie.

“Chiedere i soldi per curare la malaria forse va meno di moda -aggiunge Corti- ma in una situazione come quella in cui operiamo, focalizzarsi su cure specialistiche non avrebbe senso”. Il personale dell’ospedale, inoltre, svolge ogni anno 15mila sessioni di prevenzione, sia nei villaggi sia in ospedale, con incontri di educazione sanitaria e immunizzazioni, attività di counseling e test per l’Hiv oltre che sensibilizzazione nelle scuole.

Nel 2023 la Fondazione Corti ha festeggiato il trentesimo anniversario, un traguardo importante riconosciuto dal Comune di Milano che le ha assegnato l’Ambrogino d’oro.

“Una volta laureata avevo intenzione di lavorare come medico nella struttura”, racconta Dominique Corti, che ha seguito le orme dei genitori e parla dell’ospedale come di un fratello perché fin da piccolissima trascorreva spesso i suoi pomeriggi tra le corsie e le sale operatorie. “Ma già verso la fine degli anni Novanta i dipendenti erano quasi tutti ugandesi -continua-. Ho capito che il mio ruolo doveva essere un altro: trovare i fondi per tenere in vita il progetto”.

L’obiettivo non è solo la cura dei pazienti: oggi, sono più di 600 le persone che all’interno dell’ospedale seguono corsi specialistici per infermieri e tecnici di laboratorio che garantiscono un certificato statale. Ogni anno, poi, oltre 200 studenti della facoltà statale di Medicina svolgono a rotazione un periodo di formazione ed è possibile svolgere anche il tirocinio obbligatorio di un anno per iscriversi all’ordine dei medici. “Anche questo era parte del sogno dei miei genitori -conclude Corti-. Non volevano il ‘solito’ ospedale nella brousse, il classico progetto mordi e fuggi. Per farlo, era necessario avere pochi dipendenti bianchi, che pensano di sapere tutto e tanti ugandesi. Loro conoscono le priorità e possono decidere al meglio come usare i soldi”. Sessant’anni dopo, quel sogno vive ancora.

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