Diritti / Intervista
La vita dei rifugiati in Turchia attraverso lo sguardo dei bambini
Grazie al progetto “Sirkhane darkroom” i piccoli abitanti nel distretto di Mardin -profughi e residenti- imparano a usare la macchina fotografica. Una possibilità che permette loro di esprimersi. Abbiamo intervistato il fotografo Serbest Salih
Quando il 14 settembre 2014 lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) cominciava l’assedio di Kobanê, il giovane Serbest Salih era appena rientrato nella città natale dopo essersi laureato in fotografia all’Università di Aleppo. Il cantone di Kobanê rimase sotto assedio fino al 15 marzo 2015, quando i curdi, sostenuti dagli statunitensi, riuscirono a respingere l’offensiva dell’Isis. Quei combattimenti costrinsero però Salih a fuggire, raggiungendo la cittadina di Mardin (Turchia) a meno di cento chilometri dal confine siriano. Per non dimenticare sé stesso e la propria identità, Salih decise di portare anche in quei luoghi “la sua lingua”: una fotografia fatta di molte immagini universali e poche parole.
Nel 2017 il fotografo comincia a collaborare con l’Ong Art anywhere association, un’associazione che realizza attività per i bambini scappati dalla guerra, con cui decide di dare il via “Sirkhane darkroom” un laboratorio fotografico mobile rivolto a ragazzi “vulnerabili e senza privilegi” dai sette ai 17 anni che vivono nel Sud-Est della Turchia, a pochi chilometri dal confine siriano. Gli scatti degli oltre 400 partecipanti ai laboratori realizzati negli ultimi anni sono diventati un libro fotografico dal titolo “i saw the air fly” pubblicato, nel settembre 2021, dalla casa editrice Mack Boocks
Salih, come nasce l’idea del “Sirkhane darkroom”?
SS Ci siamo accorti che nel distretto di Mardin erano presenti comunità “miste” con un background culturale molto diverso: persone turche e siriane. Non c’era una lingua comune e spesso il dialogo era complicato. In particolare per i bambini. Abbiamo pensato che la fotografia potesse essere un buono strumento per metterli in contatto ma soprattutto per dargli la possibilità di esprimersi in prima persona. Di far vedere attraverso gli scatti il loro sguardo sul mondo evitando, per una volta, che gli adulti rubassero loro la parola.
In quale “contesto” sociale si inserisce il vostro progetto?
SS Mardin è una città con una storia antica, al confine tra Turchia e Siria, che dopo la crisi siriana ha visto l’arrivo di numerosi rifugiati. La loro condizione è pessima. Dal punto di vista economico e sociale è complicato vivere qua perché molte delle famiglie sono disoccupate, perché ottenere il permesso di soggiorno per lavoro è molto difficile. Andare in Europa legalmente è praticamente impossibile, farlo per vie irregolari è molto costoso. Parecchie persone restano qua, anche perché essendo così vicine al confine sperano di poter tornare in Siria prima o poi. Provano a vivere una vita normale, con molta fatica.
“Abbiamo pensato che la fotografia potesse essere un buono strumento per metterli in contatto ma soprattutto per dargli la possibilità di esprimersi in prima persona”
Il vostro è un laboratorio “mobile”. Perché?
SS Inizialmente abbiamo cominciato a lavorare solo nel distretto di Mardin con una certa staticità. Dopo due anni dall’inizio del laboratorio, facendo il punto su come stava andando ci siamo accorti che il trasporto era un problema e abbiamo deciso di muoverci noi. Abbiamo trasformato alcuni container in studi fotografici mobili. Così, ogni sei mesi cambiavamo il luogo muovendoci di villaggio in villaggio lungo il confine turco-siriano e lavorando con i bambini del posto. Questo fino a quando il Covid-19 ci ha obbligato a utilizzare maggiormente le piattaforme online. Una soluzione che era in parte positiva perché metteva in contatto bambini di città diverse e lontane tra loro ma non permetteva alla maggior parte delle persone di connettersi per mancanza di smartphone e soprattutto connessione. Qualcosa di bello, però, è successo anche durante la pandemia. Abbiamo lanciato una raccolta fondi per comprare un caravan di seconda mano raggiungendo la cifra necessaria: oggi possiamo girare con maggiore facilità.
Come è strutturato il laboratorio?
SS Dedichiamo circa due mesi per approfondire le diverse fasi del “processo” fotografico. All’inizio ritaglio un po’ di tempo per farmi conoscere e mettere in chiaro chi sono, cosa voglio fare. Specifico che non sono un insegnante ma una persona che vuole provare a insegnare qualcosa sulla fotografia e soprattutto imparare da loro. Insisto sempre sul fatto di divertirsi. Mostro le diverse macchine fotografiche e sottolineo che non ci sono scatti “brutti” perché la fotografia è la lingua delle emozioni e nessuno ha il diritto di giudicarle. Il segreto sta nel “sentire” il momento in cui premi l’otturatore. Mi prendo poi un momento per commentare alcune foto facendo vedere loro un documentario che racconta le storie dei grandi fotografi, uomini ma anche donne: perché spesso c’è il pensiero che la fotografia sia per soli uomini. Sgombro il campo da qualsiasi possibile discriminazione di genere e ne approfitto anche per ricordare i loro “diritti”, che spesso non conoscono. A quel punto usciamo all’aperto e proviamo a scattare delle foto. Ognuno di loro, al termine di questo primo step, riceve una macchina fotografica e torna a casa per un paio di settimane. A quel punto ci incontriamo nuovamente e insieme sviluppiamo la pellicola. Parliamo poi delle foto sviluppate, di come nascono e cosa significano.
“Mostro le diverse macchine fotografiche e sottolineo che non ci sono scatti ‘brutti’ perché la fotografia è la lingua delle emozioni e nessuno ha il diritto di giudicarle”
Che sguardo è quello dei bambini?
SS Vedono il mondo da una prospettiva diversa. Gli adulti spesso cambiano la storia e utilizzano una versione dei fatti che torna comoda a loro. I bambini sono veri in quello che dicono e trasmettono.
Quali effetti ha il suo laboratorio sulla comunità?
SS Sorprendenti. La fotografia fa parlare le persone e si incontrano comunità diverse che non avrebbero la possibilità di dialogare. Non solo i bambini, anche gli adulti. Perché spesso sono i genitori stessi che vogliono partecipare al progetto. Non potendolo fare osservano. Il laboratorio diventa così un’occasione di dialogo anche tra i più grandi. Soprattutto sui ricordi della guerra: molti dei ragazzi erano piccoli quando sono partiti e conoscono poco il loro passato. Affrontiamo anche quel tema, così assente nei loro ricordi ma decisivo nei pochi anni di vita da loro vissuti.
Come si lega tutto questo con la tua storia personale?
SS Semplicemente attraverso la fotografia esprimo me stesso. È la mia lingua. Cerco di insegnare loro a fare lo stesso: a prendersi la “prima persona” quando, spesso, per il solo fatto che stanno ancora crescendo non gli viene riconosciuto il diritto di esprimersi.
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