Crisi climatica / Attualità
La nuova mappa del petrolio in Europa: da dove arriva e come funziona il “trucco” russo
Pandemia e invasione dell’Ucraina hanno profondamente cambiato i flussi petroliferi verso l’Unione europea. Ma l’occasione di una forte riduzione della domanda è al momento perduta, con la mera sostituzione di barili da Stati Uniti, Arabia Saudita ma anche Angola e Brasile. E c’è chi “ripulisce” il greggio di Mosca. L’analisi di T&E
Le sanzioni imposte dall’Unione europea sull’importazione di petrolio dalla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022 non hanno portato a una riduzione della domanda. Piuttosto è stata “ridisegnata” la mappa dei principali Paesi fornitori, sostituendo il greggio proveniente da Mosca con quello estratto in altre parti del mondo, perdendo così “un’opportunità storica per tagliare il consumo di petrolio” e ridurre la dipendenza del continente.
A dar la misura dell’occasione perduta è la Federazione europea per il trasporto e l’ambiente (Transport & Environment, T&E) nel recente rapporto “New oil map. Impact of Russia’s war on Ukraine on supply and demand” pubblicato a luglio. “In poco più di un anno l’Ue ha ridisegnato la mappa del petrolio. Ha ridotto la propria dipendenza dalla Russia ma invece di diminuire i consumi sta semplicemente sostituendo i barili importati da Mosca con quelli di nuovi fornitori”, spiega Agathe Bounfour, responsabile del programma petrolifero di T&E.
Facciamo un passo indietro. Nel gennaio 2022 la Russia pesava per il 31% sulle importazioni europee di greggio. A marzo 2023, per effetto delle sanzioni imposte dalla Commissione Ue dopo l’invasione dell’Ucraina, la quota era scesa al 3%. Invece di cogliere questa occasione per decarbonizzare le proprie economie, i Paesi dell’Unione si sono rivolti ad altri fornitori e così, a fine 2022, gli Stati Uniti hanno preso il posto della Russia come primo fornitore dell’Europa (11% del totale), seguiti dalla Norvegia (il cui export su base mensile verso gli altri Paesi Ue è cresciuto del 18% tra il 2021 e il 2022) e dall’ Arabia Saudita (più 47%).
La conseguenza di questa situazione è che la domanda di petrolio in Europa non solo è tornata ai livelli precedenti alla crisi pandemica ma dall’invasione dell’Ucraina è persino aumentata del 2%. Nello stesso periodo, però, il consumo di gas fossile è calato del 15%. Una differenza legata al fatto che l’Ue non ha imposto obiettivi di riduzione dei consumi per il primo, mentre lo ha fatto per il secondo.
La ricerca di T&E mette in dubbio anche l’efficacia delle sanzioni, che hanno interessato prima il greggio (dicembre 2022) e poi i prodotti raffinati (dal febbraio 2023). Questo ha portato a un crollo delle importazioni da Mosca (che nel marzo 2023 pesava appena per il 3% sul totale) anche è ancora consentito far arrivare in Europa prodotti derivati dal petrolio russo raffinati in un Paese terzo.
Questa ambiguità, unita alla mancata volontà di ridurre i consumi a livello europeo e globale, ha permesso a Mosca di continuare a vendere il proprio greggio a Paesi extra europei, sebbene la produzione petrolifera russa abbia ristagnato nel 2022 e all’inizio del 2023 abbia registrato un calo di appena il 2%. Precedenti ricerche del Center for clean air and energy (Crea) hanno identificato i cinque principali Paesi responsabili di aver “ripulito” quel petrolio: India, Cina, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Singapore.
In questo contesto si è creata una condizione tale per cui il petrolio russo, formalmente vietato in Europa, arriva nel continente dopo essere transitato da altri Paesi, soprattutto India e Cina. “Le importazioni da questi due Paesi sono cresciute rispettivamente del 70% e del 13% nell’ultimo anno -si legge nel report-. La mancanza di volontà politica di ridurre il consumo di petrolio in Europa e nel mondo ha anche permesso alla Russia di dirottare la sua produzione verso altri mercati a un prezzo più basso”. In questo modo miliardi di euro hanno continuato a confluire nelle casse del governo di Vladimir Putin, finanziando anche il conflitto in Ucraina.
Oggi la domanda europea di greggio viene soddisfatta attraverso petrolio estratto da Stati Uniti, Norvegia, Libia, Kazakistan, Iraq, Regno Unito, Arabia Saudita, Nigeria e Azerbaigian. Mentre a registrare il maggior incremento è stato l’Angola, che tra il 2021 e il 2022 ha visto le proprie esportazioni crescere del 508% su base mensile. Nello stesso periodo di tempo l’export brasiliano è cresciuto del 59%, quello dall’Arabia Saudita del 47%, dalla Norvegia del 18% e dall’Iraq del 15%. Il report stima che circa l’80% del nuovo greggio diretto in Europa sia stato estratto in appena dieci giacimenti: dai pozzi petroliferi del Texas (che tra il 2021 e il 2022 hanno aumentato la loro produzione del 32%) al giacimento norvegese di Johan Sverdrup (più 8% nello stesso periodo).
La costante domanda da parte dell’Europa ha portato a un aumento della produzione di petrolio a livello mondiale, un trend che dovrebbe proseguire anche nei prossimi anni fino a toccare, secondo le stime dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), un aumento del 5% nel 2028 rispetto al 2022. Una minaccia per il Pianeta dato che per raggiungere gli obiettivi degli Accordi di Parigi sul clima (ovvero il mantenimento dell’incremento della temperatura media entro 1,5°C a fine secolo) sarebbe necessario fermare immediatamente lo sviluppo di nuovi giacimenti fossili.
Eppure, nonostante l’urgenza di agire al più presto per contrastare la crisi climatica e azzerare le emissioni di gas climalteranti, i Paesi europei continueranno a rifornirsi almeno fino al 2030 con il petrolio estratto da 18 “bombe climatiche”, in grado di produrre durante la loro vita emissioni superiori al miliardo di tonnellate di anidride carbonica: si tratta dei giacimenti di Buzios e Lula in Brasile, di quelli di Rumaila, West Qurna, Majnoon e Zubair in Iraq, di Troll e Johan Sverdrup in Norvegia, di Ghawar, Safaniyah, Khurais, Manifa, Shaybah, Zuluf, Khursaniyah, Marjan, Abqaiq e Harmaliyah in Arabia Saudita.
La nuova “mappa” dei Paesi che forniscono petrolio all’Europa rivela anche una inedita geografia dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’inquinamento a livello locale. Una recente indagine condotta in Iraq tra le comunità che vivono vicino al giacimento petrolifero di Rumaila (nel Sud-Est del Paese, la cui produzione è destinata per il 15% ai mercati europei) ha rivelato che l’inquinamento atmosferico causato dal flaring -cioè la combustione del gas in eccesso estratto dal pozzo- ha portato a un aumento dei tassi di cancro al sangue e alle ossa. Le attività estrattive, inoltre, consumano enormi quantità d’acqua andando ad aggravare ulteriormente la situazione nelle aree già sottoposte a elevato stress idrico: sempre in Iraq, nella regione di Bassora, circa un quarto del consumo idrico giornaliero è utilizzato dalle compagnie petrolifere.
Per T&E è necessario invertire la rotta e rafforzare le sanzioni contro la Russia includendovi anche i derivati del petrolio raffinati in Paesi terzi. L’Unione europea dovrebbe inoltre tagliare il consumo di petrolio, sia a breve termine, intervenendo soprattutto nel trasporto su strada, sia a lungo termine, promuovendo carburanti alternativi per l’aviazione.
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