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Economia / Inchiesta

Eni e quei rifornimenti di gas collegati ai satelliti spia russi. L’inchiesta di ReCommon

Una parte del gas che Eni estrae dal giacimento kazako di Karachaganak viene venduta all’impianto di trattamento russo di Orenburg. Presso la raffineria sarebbe stato prodotto l’elio utilizzato nel Cosmodromo di Plaseck per lanciare satelliti spia utilizzati nel conflitto in Ucraina. “Eni e il governo facciano chiarezza”, chiede la Ong

L’impianto di Orenburg in Russia ©Placemarks, Maps Data: Google/Maxar

L’Eni vende il gas del suo ricco giacimento di Karachaganak, in Kazakistan, all’impianto di trattamento russo di Orenburg, di proprietà di Gazprom, dove il gas viene processato e purificato. Secondo quanto riportato da Gazprom, e confermato da numerose fonti, una parte del gas di Karachaganak viene impiegato come feedstock per la raffineria di elio presente a Orenburg, la più grande d’Europa e l’unica attiva in tutta la Russia. I dati di cui siamo entrati in possesso rivelano che una parte dell’elio prodotto dalla raffineria è stato poi inviato al Cosmodromo di Plaseck, il principale sito di lancio per satelliti militari russi. A partire dal 2022, la stazione di Plaseck è stata adibita esclusivamente a usi militari. In particolare, vi sono evidenze di due spedizioni dirette al Cosmodromo nei mesi di marzo e giugno 2022 per un quantitativo complessivo di 160 tonnellate di elio. In entrambi i casi, il destinatario dei cargo risulta essere la Khrunichev state research and production space center, l’agenzia federale russa che realizza sistemi di lancio spaziale, tra cui il razzo orbitale Angara 1.2.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Khrunichev ha effettuato due lanci spaziali dal Cosmodromo di Plaseck, precisamente il 29 aprile e il 15 ottobre, attraverso il razzo Angara 1.2. Le date di lancio dei due razzi ben corrispondono a quelle delle due spedizioni di elio dirette al Cosmodromo di Plaseck, e non sembrano esserci ragioni plausibili dietro l’acquisto dei carichi da parte della Khrunichev se non in funzione dei lanci spaziali. Entrambi i razzi, sui quali è stata impressa la “Z” simbolo dell’offensiva militare in Ucraina, avrebbero trasportato in orbita satelliti militari russi, la cui funzione è quella di spiare i movimenti dell’esercito di Kiev e consentire l’utilizzo di armi ad alta precisione.

Il giacimento di Karachaganak, nel Kazakistan Nord-occidentale, è tra i depositi di petrolio e gas più grandi al mondo. Il campo è gestito congiuntamente da Eni e Shell, ciascuna delle quali detiene il 30% dei diritti sulla licenza. Fanno parte del consorzio, in quota minoritaria, anche l’americana Chevron (18%), la compagnia russa Lukoil (13,5%) e la società kazaka KazMunaiGas (10%). A causa della ridotta capacità di raffinazione domestica, la metà del gas estratto dal giacimento di Karachaganak viene venduto a prezzo scontato alla centrale di trattamento di Orenburg, a pochi chilometri dal confine tra Kazakistan e Russia. L’impianto fa parte di uno dei maggiori complessi petrolchimici al mondo, che include la raffineria di elio controllata dal colosso energetico di stato Gazprom.

L’elio è un elemento chimico “critico” in quanto indispensabile per il settore medico, elettronico, ma anche per l’industria militare e aerospaziale, poiché è l’unico gas in grado di pressurizzare i serbatoi dei veicoli di lancio e rilevare eventuali perdite. La Russia è attualmente tra i principali produttori di elio al mondo e lo scorso maggio il Cremlino ha deciso di bandirne l’esportazione, probabilmente in risposta alle sanzioni europee e statunitensi. Sono almeno quattro i sistemi militari russi che utilizzano l’elio come componente, tra cui i già citati razzi spaziali di tipo Angara, i razzi Soyuz, il veicolo spaziale Ktdu e il missile intercontinentale SS-19 Stiletto. La Russia effettua ancora missioni spaziali civili, ma sono state tutte spostate nella stazione di Baikonur, in Kazakistan, controllata da Mosca.

Il Kazakistan è uno dei principali produttori di petrolio e gas al mondo. Si stima che il Paese detenga riserve pari a 30 miliardi di barili di petrolio (12esimo posto al mondo) e 2,3 mila miliardi di metri cubi di gas (15esimo posto al mondo). Nel 2021, la produzione kazaka è stata di 86 milioni di tonnellate di petrolio e 30 miliardi di metri cubi di gas. In nessun altro Paese Eni detiene una quota così importante delle proprie riserve fossili, 22% di quelle petrolifere e 9,5% di quelle di gas. Nel 2021, il Paese ha pesato per il 14% dei profitti complessivi della divisione Exploration&Production (778 milioni su 5,6 miliardi di euro). Le stime sui flussi di cassa sono ancora più impressionanti: 10 miliardi sui 52 attesi, più di qualsiasi altro Paese dove Eni opera.

“Eni è stata spesso criticata per via dei suoi affari miliardari con Gazprom, il principale finanziatore dell’offensiva militare russa in Ucraina. Oggi scopriamo che la stessa Gazprom potrebbe utilizzare il gas di Eni per produrre elio destinato ai satelliti militari lanciati dai russi durante questa guerra. Riteniamo doveroso che la principale multinazionale italiana e il governo facciano chiarezza sulle forniture di gas destinate all’impianto russo di Orenburg e sul suo impiego. In gioco c’è la credibilità degli impegni presi dal nostro Paese in sostegno del popolo ucraino”, ha dichiarato Alessandro Runci di ReCommon.

Attualmente, il Kazakistan è il quarto maggiore esportatore di petrolio verso l’Unione Europea, preceduto da Russia, Norvegia e Stati Uniti. Il greggio kazako soddisfa all’incirca l’8% della domanda europea. L’80% del petrolio Kazako passa attraverso l’oleodotto Caspian pipeline consortium (Cpc), il primo ad essere costruito in seguito all’indipendenza del Kazakistan, che non appartiene dunque alla rete di infrastrutture sovietiche. L’oleodotto è controllato dalla Federazione Russa, ma fanno parte del consorzio anche il Kazakistan (20%), l’americana Chevron (15%) e varie multinazionali petrolifere tra cui anche Eni (2%).

Il Cpc parte dal giacimento kazako di Tengiz, affacciato sul Mar Caspio, e termina presso il porto russo di Novorossiysk, sul Mar Nero. Delle circa 60 milioni di tonnellate di greggio che transitano ogni anno attraverso il Cpc, il 90% è petrolio kazako, mentre il restante proviene dai giacimenti russi. Per via di questa miscela, il Cpc rischiava di essere soggetto a sanzioni in seguito alla guerra in Ucraina, ma il dipartimento del Tesoro americano ha escluso le operazioni dell’oleodotto dalle sanzioni imposte alla Russia. L’esenzione permette alla Russia di continuare ad esportare il suo greggio e secondo recenti indiscrezioni la compagnia russa Lukoil starebbe valutando di sfruttare il Cpc per aggirare l’embargo Ue in vigore dal 5 dicembre. Il governo di Kiev ha duramente criticato la decisione di escludere dalle sanzioni il petrolio che transita attraverso il Cpc, poiché tracciarne la provenienza è molto complicato. Dall’inizio della guerra in Ucraina, la Russia ha più volte interrotto il funzionamento dell’oleodotto, in quella che molti credono sia una mossa da parte di Putin per minacciare il governo kazako.

Nel corso degli anni, si è spesso discusso della necessità di trovare vie alternative per le esportazioni di petrolio kazake, come ad esempio l’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan (BTC) o la realizzazione di nuovi collegamenti con Turkmenistan e Iran. Tuttavia, ad oggi il Kazakistan è completamente dipendente dalla Russia per quanto riguarda l’esportazione di combustibili fossili.

Il giacimento di Karachaganak, scoperto nel 1979, è uno dei più grandi giacimenti di gas del mondo. Situato nel Nord-Ovest del Kazakistan, copre un’area di oltre 280 chilometri quadrati. Il campo è gestito dal consorzio Karachaganak petroleum operating (Kpo), guidato da Eni e Shell (29,5% ciascuna) e di cui fanno parte anche l’americana Chevron (18%), la compagnia russa Lukoil (13,5%) e la società kazaka, KazMunaiGas (10%). L’attuale direttore di Kpo è Giancarlo Ruiu, dirigente Eni con alle spalle oltre 15 anni di carriera nel Cane a sei zampe. La produzione annuale di petrolio e condensati si aggira sulle 10 milioni di tonnellate, mentre quella di gas è di circa 20 miliardi di metri cubi, di cui però la metà vengono re-iniettati nel giacimento per mantenerne stabile la pressione. A differenza dei liquidi, che vengono stabilizzati in loco per poi essere esportati attraverso l’oleodotto Cpc, il gas di Karachaganak viene conferito interamente presso la centrale di trattamento di Orenburg, in Russia. Ogni anno, fino a nove miliardi di metri cubi di gas “grezzo” proveniente dal giacimento sono inviati all’impianto, attraverso il sistema di trasporto Karachaganak-Orenburg, che consiste in cinque gasdotti di 140 chilometri di lunghezza.

L’impianto di Orenburg in Russia – Immagine ©Placemarks, Maps Data: Google/Maxar

La decisione di vendere il gas grezzo di Karachaganak alla centrale russa di Orenburg risale al 2007, quando il consorzio a guida Eni, Kpo, sigla a Mosca un accordo con KazRosGaz, una Joint-Venture (Jv) creata appositamente da Gazprom con la società kazaka KazMunayGaz. L’intesa prevede il conferimento, a partire dal 2012, di 16 miliardi di metri cubi di gas presso l’impianto di Orenburg, di proprietà della Gazprom. In cambio, KazRosGaz rivende gas “pulito”, proveniente da diverse fonti (gas russo e uzbeko, oltre a quello kazako) alle centrali termoelettriche kazake. Gazprom detiene invece il diritto esclusivo di esportare i volumi rimanenti verso l’Europa. Per la Russia si tratta di un accordo strategico fondamentale. Da un lato, gli consente di assicurarsi importanti volumi di gas a basso costo da poter rivendere. Dall’altro, il gas di Karachaganak permette a Gazprom di sfruttare a pieno la capacità della centrale di Orenburg, e compensare il declino dei giacimenti russi con i quali l’impianto è collegato.

L’intesa scatena però un putiferio all’interno di Eni. Mario Reali, per 20 anni il numero uno di Eni in Russia, accusa i vertici del Cane a sei zampe di stare svendendo il gas ai Russi rinunciando così a miliardi di introiti per l’azienda. Benché il prezzo pattuito fosse coperto da segreto commerciale, secondo alcune indiscrezioni Gazprom avrebbe acquistato il gas per 33 dollari ogni mille metri cubi, per poi rivenderlo a 160 dollari. Rapportato ai volumi complessivi, il guadagno totale si sarebbe aggirato sui 2 miliardi di dollari, al lordo dei costi di trasporto e raffinazione della materia prima. Oggi il prezzo del gas sui mercati europei oscilla intorno ai 1.500 dollari per mille metri cubi.

La collaborazione viene rinnovata e ampliata nel 2015, per mezzo di un accordo firmato dal manager Eni, Renato Maroli, il quale all’epoca era il direttore del consorzio Kpo, e l’ex numero due di Gazprom, Alexander Medvedev. La nuova intesa, ancora oggi in vigore, prevede il conferimento, fino al 2038, di circa nove miliardi di metri cubi di gas all’anno presso l’impianto di Orenburg. I volumi complessivi di vendita superano i 130 miliardi di metri cubi di gas, circa il doppio del consumo totale italiano. Non si hanno invece notizie riguardo il prezzo di vendita stipulato.

A margine del Forum Economico di San Pietroburgo, tenutosi a giugno del 2022, è stato siglato un nuovo accordo tra KazRosGaz e Gazprom, che prevede un incremento dei volumi di gas da conferire presso l’impianto di Orenburg, per il 2022 e 2023. I volumi addizionali ammontano a poco meno di due miliardi di metri cubi. Benché i media kazaki non specifichino da quale giacimento saranno prelevati i volumi aggiuntivi da inviare in Russia, è la stessa Gazprom a esplicitare che l’accordo si riferisce al campo di Karachaganak.

Risulta singolare che le comunicazioni ufficiali di entrambi i Paesi parlino di un accordo tra Gazprom e KazRosGaz (Jv tra la società kazaka KazMunaiGas e la stessa Gazprom), senza fare alcuna menzione del consorzio Kpo, che gestisce il campo di Karachaganak. È altamente improbabile che un accordo di questo tipo possa essere stato siglato senza il coinvolgimento diretto degli operatori del campo di Karachaganak, ovvero Eni e Shell. D’altro canto, KazMunaiGas detiene una quota minoritaria del giacimento -10%- che non pare sufficiente a garantirgli volumi di gas pari a quelli contrattualizzati con Gazprom lo scorso giugno. Un’ipotesi plausibile è che vi sia un tentativo di schermare le due società europee. La stipula di un’intesa tra esse e Gazprom, a guerra in corso, potrebbe infatti provocare una reazione da parte di Washington e Bruxelles.

Nella sua ultima relazione alla Security exchange commission (Sec), Eni si è premurata di precisare che, riguardo l’invio di gas alla centrale russa di Orenburg, “il management non crede che la transazione violi il regime di sanzioni imposte alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina”. Una precisazione da non sottovalutare, poiché in essa appare implicita, da parte di Eni, la richiesta di rassicurazioni sulla materia alle autorità americane. Gli elementi a disposizione non sono sufficienti ad affermare con certezza quale sia la ragione dietro per cui Eni abbia condiviso la scelta di vendere il gas in forma grezza ad un prezzo scontato, piuttosto che processarlo e rivenderlo al prezzo di mercato. È probabile che le relazioni diplomatiche tra Russia e Kazakistan abbiano pesato sull’accordo, ma è necessario tener conto anche dei rapporti privilegiati tra Eni e Gazprom, specialmente in quegli anni.

L’accordo sul gas di Karachaganak viene siglato nello stesso periodo in cui Eni e Gazprom firmano la loro intesa più strategica, attraverso cui il Cane a sei zampe si impegna ad acquistare gas dalla Russia fino al 2035. Il patto di collaborazione prevedeva inoltre la realizzazione del gasdotto South Stream, che avrebbe rafforzato ancora di più la dipendenza europea dal gas russo e per questo molto inviso agli americani. Il gasdotto fu poi cancellato nel 2014.

Eni ha sempre giustificato la decisione di inviare il gas kazako in Russia sulla base di ragioni tecniche. Rispondendo ad un azionista durante l’Assemblea generale del 2022, Eni ha affermato che: “Il gas estratto non è direttamente commercializzabile, per poter essere utilizzato necessità di complessi processi da svolgersi in ambiente controllato ed appositi impianti. Pertanto il prezzo di cessione del gas, da parte del consorzio internazionale, riflette il valore allo stato prima del trattamento. In aggiunta, non vi sono infrastrutture esistenti che ne permettano il trasporto diretto, via pipeline, in Italia.”

Tuttavia, Eni ha contribuito alla realizzazione o espansione di raffinerie in diversi dei Paesi in cui estrae petrolio e gas, a partire da Nigeria, Angola, Emirati Arabi, quali altri? I motivi dietro la scelta di non sviluppare un impianto di raffinazione integrato con il campo di Karachaganak rimangono un mistero. Nessun altro paese è così rilevante nel business di Eni, dal momento che il Kazakistan fornisce il 22% delle riserve petrolifere controllate da Eni nel mondo, ed il 9,5% di quelle di gas. Nel 2021 il Kazakistan ha pesato per il 14% dei profitti complessivi della divisione Eni Exploration&Production (778 milioni su 5,6 miliardi di euro secondo il bilancio pubblicato dal gruppo). Le stime sui flussi di cassa sono ancora più impressionanti: dal Kazakistan provengono 10 miliardi sui 52 attesi per il business Exploration&Production, più di qualsiasi altro Paese dove Eni opera.

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