Diritti / Approfondimento
La mobilità inibita dei migranti e il ruolo dell’intervento umanitario. Il caso del Niger
Dal 2016 il Paese africano è diventato un luogo di ristagno e di blocco dei flussi migratori. È il frutto del processo di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea, che strumentalizza corridoi umanitari e meccanismi di evacuazione. Asgi denuncia lo svuotamento del diritto d’asilo
Il 7 aprile 2022 il Tribunale civile di Roma ha negato a un cittadino originario del Sud Sudan bloccato in Libia l’ingresso sul territorio italiano tramite un visto d’ingresso per mancanza di presupposti. Motivo: sarebbe “pacifica la sottoscrizione di Protocollo d’intesa riguardante i cosiddetti corridoi umanitari in Libia”. Una sentenza non isolata, anche con riferimento ad altre aree geografiche, ad esempio l’Afghanistan, che dimostra come l’intervento umanitario e la possibilità di uscire da un Paese tramite canali legali, nonostante i ridotti posti disponibili, possa rischiare di diventare, secondo i giudici, la “giustificazione” del processo di esternalizzazione dell’Ue per bloccare le persone lontane dal territorio europeo. “Nelle aule giudiziarie sembra diffondersi l’idea che l’esistenza di programmi di evacuazione giustifichi l’impossibilità di accedere alle forme di protezione da Paesi terzi, come ad esempio la Libia -spiega Adelaide Massimi, operatrice legale e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)-. Il diritto si svuota di senso, in questo modo, perché i ‘corridoi umanitari’ sono strumenti concessori che non mettono in discussione la politica di blocco”. Analizzando ciò che succede in Niger è possibile comprendere meglio questo meccanismo.
Proprio sul territorio nigerino la politica di esternalizzazione portata avanti dall’Ue ha raggiunto in parte i suoi scopi: se nel 2016 erano 333.891 le persone transitate dal Niger verso la Libia (e in parte in Algeria) nel 2018 questo numero si è ridotto a 43.380. Lo riporta il progetto “Sciabaca&Oruka – Oltre il Confine” di Asgi che nel dicembre 2021 ha svolto una missione di monitoraggio nel Paese.
Massimi in quali termini l’intervento umanitario diventa “problematico”?
AM Se guardiamo alle politiche di esternalizzazione nel complesso realizzate dall’Unione europea e alla proposta di Patto per le migrazioni del 2020 l’azione umanitaria è una parte integrante della strategia. Da un lato la cooperazione con i Paesi di transito e di origine per bloccare il flusso, dall’altro l’azione umanitaria che può essere utilizzata strumentalmente dai governi per legittimare le politiche di esternalizzazione. Sembra che sia sempre più forte l’idea, anche nelle aule giudiziarie, con la sentenza emblematica del Tribunale civile di Roma che lo dimostra, che se c’è un programma di evacuazione nel Paese allora l’accesso alla protezione è garantito. Per questo è importante analizzare e chiarire la natura e i limiti dei corridoi umanitari e, nel caso del Niger, anche di quelli di evacuazione: sono interventi emergenziali umanitari che non incidono sull’effetto del blocco. Non è una novità, precedentemente lo stesso Tribunale di Roma, con riferimento a un cittadino afghano che ha fatto ingresso in Italia, sottolinea che il ricorrente avrebbe dovuto entrare tramite i corridoi umanitari attivi nel Paese in cui è transitato. Si “confonde” però l’intervento umanitario, che è concessorio, con il diritto alla protezione. È chiaro che ogni vita salvata è preziosa ma occorre evitare che questi programmi siano utilizzati strumentalmente dai governi.
Con specifico riferimento al Niger, perché definisce la misura come “concessoria”?
AM Occorre fare un passo indietro. Dalla fine del 2017 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr) ha concluso un memorandum con le autorità nigerine per un periodo definito e limitato di chi veniva evacuato dalla Libia attraverso l’Emergency transit mechanism (Etm) e che avrebbe dovuto essere reinsediato in un Paese di destinazione. L’unico meccanismo di evacuazione esistente a fronte del blocco delle partenze dalla Libia implementato grazie alla cooperazione con le autorità italiane (con appena 3.691 richiedenti asilo trasferiti dalla Libia al Niger dal 1 novembre 2017 a fine maggio 2021, ndr). La Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, quindi non c’è possibilità di vedersi riconoscere lo status di rifugiato. Di fatto gli accordi tra l’Unhcr e le autorità del Paese non sono noti. Si sa però che solo le persone provenienti da nove Paesi possono essere registrate e prese in carico dall’Unhcr con un costante rimpallo delle responsabilità: i libici dichiarano che è un limite imposto dai funzionari, i funzionari viceversa. Resta il fatto che già questo dimostra come l’Etm non sia un meccanismo generalizzato di accesso alla protezione perché la possibilità di registrazione non dipende da una valutazione individuale del bisogno della persona ma è connesso alla nazionalità. La seconda questione è che non sono chiari i meccanismi per cui una volta che la persona viene registrata accede a questo programma. Sembrerebbe che ci siano delle valutazioni caso per caso basate sulla vulnerabilità della persona ma questo non significa che ci sia un automatismo tra riconoscimento della vulnerabilità ed evacuazione dalla Libia. C’è una valutazione nel corso del tempo in base alla quale poi l’Unhcr decide se la persona può essere evacuata o meno. Infine serve un’effettiva possibilità che la persona stessa poi possa essere ricollocata dal Niger verso altri Stati europei.
Quindi chi viene evacuato dalla Libia verso il Niger non ha la certezza di poter poi raggiungere gli Stati europei?
AM No. Abbiamo incontrato cittadini eritrei fermi da tre anni nei campi profughi nigerini. Ogni Stato europeo (e non) ha ampia discrezionalità nell’accettare una domanda di reinsediamento con criteri molto volatili. Succede che se una persona viene rifiutata da uno, due, tre Paesi poi diventa sempre più difficile vedersi riconosciuto un visto d’ingresso. Così le persone, riportate dalla Libia indietro per aver accesso alla protezione restano intrappolate.
In quali condizioni?
AM Viste queste lungaggini e anche il numero limitato dei trasferimenti l’Unhcr si sta orientando verso altre azioni nel Paese per soluzioni durevoli che puntano sull’integrazione e sul miglioramento delle condizioni di vita in Niger. Ma è assurdo. Parliamo del penultimo Paese per indice di sviluppo umano al mondo. E questo tra l’altro in un cortocircuito. L’Italia, ad esempio, finanzia programmi di assistenza ai rifugiati in loco ma riconosce, spesso, ai cittadini nigerini richiedenti asilo sul nostro territorio la protezione sussidiaria perché il Paese non è considerato sicuro. Un controsenso.
Gran parte degli interventi europei in Paesi terzi è giustificato con la necessità di contrastare il traffico di migranti. Così anche in Niger. Che cosa ne pensa?
AM Le istituzioni europee appoggiano l’approvazione di normative contro traffico e tratta degli esseri umani, temi spesso trattati nello stesso atto normativo. Questi provvedimenti effettivamente colpiscono la mobilità. Il Niger lo dimostra. La legge numero 36 del 2015 delle autorità nigerine contro il contrabbando di migranti ha avuto come effetto proprio la limitazione nella libertà di circolazione garantita nella regione dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, ndr), di cui fa parte il Paese. La criminalizzazione del traffico genera un sistema che si autoalimenta. Lo afferma anche l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) nelle premesse di un progetto per il sostegno nella gestione di confini tra Burkina Faso, Mali e Niger del settembre 2020 in cui si sottolinea come di fatto le leggi che combattono lo smuggling generano una clandestinizzazione delle rotte e un maggior ricorso ai trafficanti e, per questo motivo, serve rinforzare il controllo delle frontiere per combattere il fenomeno del contrabbando. Nuovamente un cortocircuito. Anche perché le persone in transito arrivano ad Agadez senza niente: il “pagamento” per i trafficanti o ai posti di blocco della polizia, spesso corrotta, può arrivare anche a 15/20mila franchi. Una volta arrivate lì, senza niente, vivono una condizione di precarietà e quindi hanno necessità di ricevere assistenza umanitaria.
L’Italia riveste un ruolo di primo piano nel quadro descritto?
AM Sì. Sia per la cooperazione con la Libia, il primo “motivo” del blocco, sia per gli interventi diretti in Niger previsti dalla “Strategia italiana in Niger per la gestione delle migrazioni” implementata a partire dall’ottobre 2020 e che si basa su due pilastri fondamentali: l’assistenza delle persone e il blocco del flusso. Il rafforzamento delle capacità di controllo delle frontiere da un lato, quindi, e poi l’assurda volontà di rendere il Niger un Paese sicuro per i rifugiati. Si parla addirittura di impiego lavorativo dei migranti in loco e integrazione: quell’idea è strettamente finalizzata alla giustificazione del blocco, non ha contatto con la realtà. E lo dimostrano anche gli interventi di cooperazione realizzati.
Prevede un cambio di approccio, nel futuro prossimo, da parte delle istituzioni italiane ed europee?
AM Purtroppo no. Sia nel Patto per le migrazioni e l’asilo sia nel Piano d’azione dell’Ue contro il traffico di migranti per il 2021-2025 il modello è confermato. In Niger, tra l’altro, c’è la volontà di rafforzare la presenza di Frontex (l’Agenzia che sorveglia le frontiere europee ndr): un altro passo per rafforzare il blocco della mobilità.
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