Diritti / Reportage
La guerra contro Gaza vista dalla Giordania
Con oltre il 60% della popolazione palestinese, dallo scorso 7 ottobre il Paese è attraversato da ondate di proteste e subisce le ripercussioni economiche, politiche e regionali della guerra in corso nella Striscia. Con imprevedibili rischi per la stabilità interna
“Quest’anno il Ramadan è significato solo tristezza e vergogna”. A pochi giorni dalla fine dell’eid al fitr, che conclude la festa più importante per i musulmani, R. è deluso e arrabbiato. “Piuttosto che spendere per gli iftar (il pasto del tramonto che segna la fine del digiuno quotidiano, ndr) e l’eid, abbiamo risparmiato per mandare soldi a mia sorella, per aiutarli ad uscire dall’inferno di Gaza”.
Di famiglia originaria di Jaffa ma nato a Balbeek, in Libano, e cresciuto in Giordania, ad Irbid, nel Nord del Paese dove vive tutt’ora, R. ha perso suo cognato rimasto vittima di un bombardamento che ha distrutto la loro abitazione, lasciando vedova la moglie e tre figli. “Aspettano al valico di Rafah da due mesi, dormono in tende e vivono di ciò che gli è rimasto e dei pochi aiuti disponibili. Stiamo cercando di far arrivare loro 20mila dollari”. Tanto è il prezzo che un’agenzia egiziana ha stabilito, 8.000 per lei, 4.000 a testa per i minorenni, per una fuoriuscita in sicurezza e il trasporto fino al Cairo.
La storia di R. non è un caso isolato, in Giordania. Con oltre il 60% di cittadini di origine palestinese su una popolazione di oltre 11 milioni di persone, sono tantissime coloro che stanno vivendo in prima persona il massacro in corso a Gaza. In pratica circa una persona su due in Giordania ha legami famigliari diretti o indiretti con Cisgiordania e Gaza. Sviluppatisi da oltre 75 anni, questi sono il risultato di molteplici esodi tra il 1948, la Nakba e la conseguente nascita dello Stato di Israele, e il 1967, anno della guerra dei Sei Giorni, due dei principali momenti storici che hanno segnato la storia delle due sponde del fiume Giordano.
A Est, contrariamente a quanto avvenuto nel resto dei Paesi arabi, il regno hashemita ha concesso alla maggior parte dei profughi la cittadinanza, a eccezione proprio dei palestinesi di Gaza. Questi, i cui discendenti ad oggi sono circa 2,4 milioni, sono esclusi da gran parte dei servizi pubblici e vivono alle dipendenze dell’Unrwa, l’agenzia specializzata nell’assistenza ai rifugiati palestinesi finita nuovamente sotto l’occhio del ciclone negli ultimi mesi. Non c’è da sorprendersi quindi se in Giordania si siano svolte le più grandi manifestazioni di solidarietà e protesta in tutta la regione, non solo contro le ambasciate israeliana e statunitense, ma anche presso le sedi del governo, verso il quale la popolazione sta esprimendo dissenso per le sue politiche contradditorie. Guidato dal re Abdullah II, l’esecutivo continua a livello diplomatico a condannare Israele e facilitare l’accesso agli aiuti a Gaza, dall’altro ha lasciato però intatti i rapporti con Tel Aviv e Washington. Fondati su accordi politico-militari di lunga data che fanno di Israele e Stati Uniti alleati chiave di Amman, le contraddizioni di queste relazioni sono emerse con ancor più chiarezza a metà aprile. Mentre diverse manifestazioni e sit-in si svolgevano nei giorni dell’eid, il re ha dato ordine all’esercito di intercettare nello spazio aereo giordano i droni e i razzi lanciati dall’Iran nella notte del 13 aprile in direzione di Israele. Nel contesto di un’escalation senza precedenti nella regione, l’intervento diretto di Amman, percepito come in aiuto ad Israele, rischia così di inasprire ancora di più il suo rapporto con la popolazione, soprattutto in un contesto in cui le manifestazioni pro-palestinesi vengono pesantemente limitate.
“Dal 7 ottobre ci sono stati almeno 1.500 arresti. È un segnale molto preoccupante”. F., di famiglia palestinese ma nato in Kuwait, è un attivista di lunga data e operatore sociale. Da cinque mesi ha l’obbligo di riportare tutte le attività che organizza o di cui fa parte a cinque diversi dipartimenti di sicurezza, pena una multa di 2mila dinari (circa 3mila euro) o la detenzione. Lo incontriamo in un noto centro culturale, a due passi dal souq (mercato popolare, ndr), dove, nonostante un considerevole calo del turismo, si dispiega un via vai di visitatori, per lo più occidentali e ignari dell’aria di eccessivo controllo che si respira ad Amman. “Il governo sta diffondendo un clima di paura che non so dove ci porterà. Qui ci sono sempre state manifestazioni di protesta contro l’occupazione israeliana, così come non sono nuove le limitazioni annesse da parte dell’autorità in nome della ‘sicurezza pubblica’. Ma stavolta è diverso, soprattutto dopo l’adozione della ‘legge contro i crimini informatici’”. Approvata lo scorso agosto e criticata per la sua discrezionalità, la legge consente agli apparati di sicurezza di avere maggiore controllo sui mezzi di comunicazione (internet e telefonia mobile) e di agire in modo diretto se messaggi o azioni possano determinare “rischi per la sicurezza pubblica e la decenza”. A causa di questa legge, F. è stato fermato e portato in giudizio per avere partecipato a una discussione online sul boicottaggio di beni e marchi che sostengono l’economia israeliana, una campagna che dal 7 ottobre in poi si è allargata alle aziende simbolo della presenza statunitense in Giordania. “Lo scorso novembre sono stato convocato in commissariato, denunciato per ‘scandalo‘ da parte di ignoti. Ci sono state più udienze, ma le accuse sono sempre rimaste vaghe. Da settimane non ho più notizie, o sarò prosciolto oppure costretto a pagare una multa o scontare due anni di detenzione”.
Chi invece in prigione ci è finita, seppur per due giorni, è E., attivista del gruppo Jordan youth gathering to support resistance, che da mesi organizza manifestazioni ogni venerdì al confine con la Cisgiordania per chiedere al governo di mettere fine agli scambi commerciali con Israele. Questi, formalizzati dall’accordo di pace del 1994 tra i due Paesi, hanno suscitato nella popolazione giordana una crescente frustrazione dopo le notizie secondo cui Israele starebbe riuscendo a superare il blocco commerciale nel Mar Rosso proprio grazie ad Amman. “Dopo anni di attivismo, è la prima volta che vediamo il nostro governo così esplicito nel limitare la libertà di espressione. Io me la sono cavata giocandomi la carta del mio secondo passaporto svizzero, che dopo aver mostrato mi ha permesso di uscire e soprattutto di rifiutare di firmare la dichiarazione ‘di buona fede’”. Questa consiste in una sorta di autocertificazione secondo la quale l’accusato si impegna a non partecipare più a manifestazioni che minacciano l’ordine pubblico, senza specificare altro. “La cosa che mi preoccupa di più è la rabbia generale da parte della popolazione, e anche una certa radicalizzazione, che da anni non si vedeva”.
Tra le altre cose, E. si riferisce a un supporto generale nei confronti della resistenza armata di Hamas, e in manifestazioni pubbliche anti-israeliane soprattutto nella parte occidentale di Amman, tradizionalmente più ricca e moderata. Per un Paese che dopo la guerra civile del 1970 ha fatto di tutto per allontanare le influenze dei gruppi armati nella regione, vedere le bandiere israeliane rappresentate su bidoni dell’immondizia e slogan usati da Hamas negli ultimi mesi rappresentano dei fatti insoliti. Tuttavia, questi vanno contestualizzati alla luce del peggioramento della situazione in Palestina negli ultimi anni e la normalizzazione dei rapporti con Israele portata avanti dai governi di Arabia Saudita, Emirati e Qatar e a cui la Giordania si è allineata. “Per quanto anche nel nostro movimento non ci sia supporto per l’ideologia e le politiche di Hamas, quest’ultimo viene visto per lo meno come uno dei pochissimi tentativi di resistenza all’occupazione di Israele”.
Con un’economia trainata principalmente dagli aiuti statunitensi (circa 3,8 miliardi di dollari all’anno) e dal turismo (in calo dal 7 ottobre, per circa 2,8 miliardi, secondo stime ufficiose dell’Onu), la vicina guerra e le conseguenti ripercussioni sociali non rappresentano un segnale positivo per uno dei pochi Paesi considerati “stabili” della regione. Tra queste non va dimenticato che la Giordania ospita quasi quattro milioni di rifugiati, tra siriani (1,3), sudanesi, iracheni e yemeniti, senza dimenticare i palestinesi registrati con l’Unrwa, la quale, se cessasse di esistere, significherebbe altri 2,4 milioni di persone a cui fornire servizi di base, in una situazione generale di riduzione dei fondi umanitari per Amman da parte della comunità internazionale. “Contenuto durante le primavere arabe –secondo E.– il caos regionale generato da Israele a Gaza e il modo in cui il regno sta rispondendo possono sfociare in conseguenze imprevedibili”.
© riproduzione riservata