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Cultura e scienza / Intervista

La disabilità vista con gli occhi dei padri

© Fabrizio Re Garbagnati

Con lo spettacolo teatrale “Stabat Pater” la compagnia teatrale Alma Rosé porta in scena le storie dei “padri combattenti” raccolte attraverso lunghe interviste. È al Campo Teatrale di Milano fino al 24 aprile

È una notte come tante, la notte di un uomo che deve prendersi cura di un figlio che non parla, non cammina e non gioca come tutti gli altri ragazzi. È una notte di confessioni, di racconti, di rabbia ma anche di amore quella messa in scena dalla compagnia teatrale Alma Rosé in collaborazione con la compagnia Sanpapié con lo spettacolo “Stabat Pater. Viaggio tra padri combattenti” in programma fino al 24 aprile al Campo Teatrale di Milano. “È uno spettacolo che avevo in mente da molto tempo -racconta ad Altreconomia Manuel Ferreira, attore e regista di Alma Rosé-. Quando ti nasce un figlio con disabilità, che non è come te lo sognavi, devi seppellire l’idea del figlio che avevi e devi farlo rinascere di nuovo. Spesso questo dolore è associato alle madri, mentre quello dei padri raramente viene raccontato: il dolore degli uomini spesso viene ancora visto come un tabù, qualcosa che viene rimosso e di cui non si parla. Così ho iniziato a intervistare padri di bambini e ragazzi con disabilità per costruire il nostro spettacolo teatrale”.

È proprio Ferreira a dare voce e corpo al padre protagonista dello spettacolo, che è la “somma” di tanti uomini incontrati durante il lungo lavoro di ricerca, interviste e scrittura che ha preceduto la rappresentazione. “Alcuni sono parte della mia famiglia. Sono padrino del figlio con un grave disabilità di un mio carissimo amico: è lui che mi ha ispirato e con cui ho avuto modo di fare lunghe conversazioni. Siamo riusciti a parlare profondamente e a lungo di quei sentimenti che faticano a esprimersi: l’amore per il proprio figlio nonostante la malattia, il rifiuto della narrazione ‘eroica’ delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Molti altri padri li ho incontrati grazie a realtà come la fondazione Bendetta d’Intino, che si occupa di comunicazione aumentativa, l’associazione l’Abilità impegnata nella promozione del diritto al gioco, la cooperativa Cascina Biblioteca”.

A vestire i panni del figlio è il giovane danzatore Gioele Cosentino, corpo narrante e senza voce, che interagisce con il padre attraverso i suoi abbracci, ma anche i tentativi di respingerlo, i gesti di ribellione quando non vuole indossare i vestiti o non vuole dormire. Un racconto che condensa il dolore di un padre che vive la difficile quotidianità insieme a un figlio amato, ma con cui non riesce a comunicare. Una quotidianità fatta di cure e attenzioni, ma anche di una ricerca di una dimensione in cui i due possano incontrarsi.

Da dove viene il titolo dello spettacolo?
MF Dalla preghiera “Stabat Mater” di Iacopone da Todi che racconta il dolore della Madonna davanti alla morte di Gesù. Durante una delle interviste abbiamo incontrato un padre che ci ha raccontato di essere andato nella cappella dell’ospedale dopo la nascita del figlio: davanti alla Croce ha chiesto il perché di quello che gli stava succedendo. Il senso, il disegno profondo. Questo è un tratto comune a molte famiglie, che si sentono in colpa per la nascita di un figlio con disabilità, si dicono che avrebbero dovuto fare determinate cose e non altre. Questo dolore nella contemplazione mi ha ispirato nella scelta del titolo: e nello spettacolo abbiamo voluto trasformare questa preghiera in qualcosa di diverso, in un rito.

Quando sui media, nei film o nei libri si parla di bambini e ragazzi con disabilità compaiono soprattutto le madri. I racconti al maschile sono più rari.

MF Rari, ma ci sono: penso ad esempio a Luca Trapanese (padre adottivo della piccola Alba, che racconta la sua quotidianità anche sulla sua pagina Instagram, ndr) o Massimiliano Verga, autore del romanzo “Zigulì. Vita dolceamara con un figlio disabile”. Però è vero: in genere i padri si raccontano meno. Oggi però le coppie sono più bilanciate rispetto al passato e anche sulla gestione di un figlio con disabilità i padri sono più presenti, nonostante le fatiche immense che questo comporta e che spesso fanno anche saltare i matrimoni.

© Fabrizio Re Garbagnati

Quando sui media si parla di genitori di figli con disabilità si usa molto una narrazione “eroica”. Voi invece avete scelto il termine “combattenti” per definire i padri protagonisti del vostro spettacolo. Come mai?
MF Perché la vita quotidiana di queste persone è una lotta: mi sono ispirato a uno dei papà che ho intervistato e che ho messo nello spettacolo. “Nel tempo libero faccio kickboxing -mi ha detto-. Lo faccio per non prendere a pugni nessuno perché a volte sono così arrabbiato che prenderei a pugni tutti”. Per molti padri il rapporto con i figli è una lotta e devi lottare ogni momento: per vestirlo, per farlo uscire di casa, per convincerlo a mettersi a letto ma anche lottare per trovare uno spazio tuo figlio. E ho voluto mettere in scena questa lotta: nello spettacolo ci sono diversi momenti in cui tra padre e figlio c’è una sorta di combattimento pacifico.

Lo spettacolo è ambientato di notte, come mai?
MF Anche in questo caso l’ispirazione è arrivata da uno dei genitori intervistati. In un’intervista un papà mi ha detto che la notte per lui era tremenda: il figlio non lo faceva dormire e di conseguenza sentiva tutti i rumori della notte, le persone per strada, la goccia che cadeva nel lavandino. Ed era un tormento. Inoltre, il fatto di ambientare lo spettacolo di notte mi permetteva di mettere assieme tuti i pezzi, tutte le storie che avevo raccolto, come se fosse un unico flusso di stanchezza dove racchiudere tante situazioni diverse.

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