Diritti / Opinioni
La cattiva eredità degli “sceriffi di sinistra”

Da più di venti anni la sinistra ha rinunciato a promuovere la giustizia sociale puntando sulla repressione. È così che è nata l’egemonia di destra. La rubrica di Tomaso Montanari
A inizio ottobre un giornale fiorentino di “sinistra” ha pubblicato questo titolo “Andrea Giorgio, un caffè con Graziano Cioni. E lo sceriffo promuove l’erede: ‘Idee chiare, vediamo se ha gambe’”. L’attuale assessore alla sicurezza di una giunta Pd-Avs-Cgil incontra un suo storico predecessore, detto simpaticamente “lo sceriffo”. Bisognerebbe riflettere profondamente sul cedimento culturale per cui anche in quella che ci ostiniamo contro ogni evidenza a chiamare “sinistra” si sente il bisogno di avere un assessore “alla sicurezza” (che ovviamente non si intende come “sicurezza sociale” per tutte e tutti).
In un piccolo, prezioso libro di quindici anni fa (Lavavetri, Terre di Mezzo 2009), Lorenzo Guadagnucci ha raccontato come la retorica della sicurezza e del decoro urbano siano nate non nella Milano della Lega, ma nella Firenze non di Matteo Renzi, ma del suo predecessore sindaco Leonardo Domenici e appunto dell’assessore-sceriffo Graziano Cioni. Nel luglio del 2008 (nel pieno delle campagne sulla sicurezza del Governo Berlusconi), la giunta “di sinistra” fiorentina varava un Regolamento di polizia urbana nel quale è possibile leggere in chiaro non solo la radice, ma un bel tratto della malapianta che oggi fiorisce. Guadagnucci racconta come il fiorentino Pier Luigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia, e la stessa Procura di Firenze furono costretti a intervenire nel discorso pubblico, smentendo l’amministrazione: nessuna reale esigenza di sicurezza giustificava la stretta anticostituzionale contro i lavavetri e i rom fiorentini.
Mentre alcuni preti digiunavano sotto Palazzo Vecchio con cartelli che dicevano “bisogna combattere la povertà, non i poveri”, il Governo Berlusconi varava il pacchetto sicurezza di Maroni, che ricalcava in larga parte quello lasciato da quello Prodi e non approvato dal Parlamento solo per la crisi dell’esecutivo. Poco prima, era il 2007, il segretario del Pd e sindaco di Roma Veltroni aveva teorizzato, scrivendo a la Repubblica, che la sinistra doveva “rispondere al bisogno di legalità con fermezza e assoluta severità”.
Ha scritto Simone Weil: “L’infelicità è un brodo di cultura per falsi problemi. Fa nascere ossessioni. Il mezzo per placarle non è di dare quel che esse pretendono, bensì far sparire l’infelicità. Se un uomo soffre di sete per una ferita al ventre non bisogna dargli da bere; bisogna guarire la ferita”. La sinistra italiana ha deciso di imboccare la scorciatoia: perché ammettere la presenza della ferita al ventre (ingiustizia sociale, diseguaglianza, abbandono dei più deboli, rinuncia alla liberazione dei cittadini dal bisogno e dall’ignoranza) avrebbe obbligato a riconoscere che, da quasi vent’anni, essa stessa aveva allargato e approfondito quella stessa ferita. Era molto più semplice placare la sete con l’acqua avvelenata della “sicurezza”, e dunque della xenofobia e del razzismo.
È esattamente da qui che nasce l’egemonia culturale della destra: quando la sinistra smette di dire e di pensare che la sicurezza (di tutti, e non solo dei “salvati”) si costruisce con la giustizia sociale, non con la repressione. Oggi una destra orgogliosamente fascista ha costruito una straordinaria fortuna politica sul dare da bere odio a un corpo sempre più ferito: ma la sua imprenditoria della paura ha radici profonde nel tradimento di quella che continua a chiamare se stessa sinistra, e che continua a fare le stesse politiche. Di destra.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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