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Diritti / Intervista

Io che ho vissuto il “modello australiano” imitato dai governi europei per confinare le persone

© Ferals Studio - Unsplash

Dopo lo straordinario “Nessun amico se non le montagne”, lo scrittore e giornalista curdo-iraniano Behrouz Boochani torna in libreria con “Libertà, solo libertà” (Add Editore). Sono gli scritti di oltre cinque anni di detenzione sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, all’interno di un centro offshore australiano. Un dispositivo, replicato oggi in forme diverse da più parti, che strumentalizza i rifugiati per mantenere il potere

Gli articoli e i testi raccolti nel libro “Libertà, solo libertà”, pubblicato da Add Editore, sono stati scritti tra il 2013 e il 2020. In quegli anni, lo scrittore e attivista culturale curdo-iraniano Behrouz Boochani è stato detenuto sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, all’interno di un centro di detenzione offshore australiano.

Boochani, fuggito dall’Iran per il suo giornalismo a sostegno del popolo curdo, è riuscito a raccontare da Manus la drammatica realtà di un sistema di detenzione illegale, dove migliaia di rifugiati sono costretti a vivere in condizioni disumane, vittime di un sistema politico anti-immigrazione che nega l’accesso alla protezione legale a chi fugge da persecuzioni e conflitti. 

La testimonianza contenuta inLibertà, solo libertà” e nel precedente “Nessun amico se non le montagne” trasmettono al pubblico un linguaggio nuovo, che va oltre il giornalismo tradizionale. Questo libro è una specie di cronistoria degli anni passati a resistere, criticare, illustrare e tentare di abolire il programma brutalmente strategico e razzializzato messo in atto dall’Australia per controllare le frontiere. La maggior parte degli scritti raccolti è stata prodotta proprio durante la detenzione di Boochani, al quale abbiamo rivolto le nostre domande. 

Com’è la vita di Behrouz ora, dopo Manus? Che cosa ha significato il successo del tuo libro per te e per gli altri migranti?
BB Dopo oltre sei anni di detenzione, nel novembre 2019, sono riuscito a fuggire in Nuova Zelanda: grazie al mio libro, infatti, ero stato invitato a un festival letterario a Christchurch. Poco dopo il mio arrivo, nel giorno del mio 37esimo compleanno, mi è stata concessa la protezione permanente. Continuo a raccontare le storie di chi vive le atrocità causate da questa assurda politica di respingimento offshore: al momento della pubblicazione di questo libro, nel mondo ci sono oltre ventisei milioni di rifugiati e più di ottantadue milioni di sfollati. C’è ancora molto da fare. Scrivere e leggere è un modo per restituire un volto ai rifugiati, per documentare questa storia, per promuovere una trasformazione e per proteggere l’identità di chi non ha altra scelta che esercitare il diritto di richiedere asilo. I leader di questo movimento sono gli stessi rifugiati. Il nostro è un cammino lungo e tortuoso, ma ogni piccolo passo che facciamo ci conduce un po’ più vicino a un futuro migliore. 

Raccontaci come scrivevi. Scrivevi dalla tua cella? Non temevi di essere scoperto?
BB I primi quattro anni della mia detenzione li ho trascorsi nella base navale di Lombrum, convertita in centro per migranti. Le strutture erano pessime: oltre 1.300 detenuti dormivano in tende, container o hangar, sopportando un clima estremo e trattamenti disumani. In questo contesto, in un primo momento mi sono preoccupato di proteggere me stesso dalle autorità, considerando che mi trovavo in un luogo remoto dove mi poteva succedere qualunque cosa. A poco a poco, ho iniziato a collaborare con giornalisti e organizzazioni umanitarie fuori dalla prigione, mantenendo l’anonimato. Prima utilizzavo, una volta alla settimana, i lenti e inaffidabili computer della prigione ai quali avevo accesso per poco tempo. Quando riuscii a procurarmi illegalmente un telefono cellulare, potei iniziare a lavorare in modo più efficace, anche se sempre di nascosto e con una connessione internet precaria, oltre che costantemente a rischio. Più di una volta il mio telefono è stato trovato dagli agenti della prigione e ne ho pagato le conseguenze. La preoccupazione svanì solo quando mi resi conto che l’essere riconosciuto come giornalista e attivista non avrebbe comunque cambiato la mia situazione. Quando sentii che la mia rete di contatti era abbastanza solida e non mi avrebbe mai abbandonato, capii che dovevo diventare ancora più prolifico e visibile. Dopo due anni di anonimato, pubblicai il mio primo articolo firmato. 

Il tuo traduttore Moones Mansoubi ti ha descritto come un “attivista dell’auto-rappresentazione”. Che cosa ne pensi?
BB Posso dire che sono nato in una comunità emarginata, quella curda, in un luogo isolato in Iran. Per questo, mi sono sempre affidato alla mia esperienza di vita per sviluppare idee e offrire nuove prospettive, attraverso un linguaggio che va oltre il giornalismo. Scrivo di rifugiati -e più in generale di comunità emarginate nei sistemi coloniali- perché le loro storie sono al centro della mia esperienza e della mia comprensione.  

Qual è la tua opinione sulla tendenza a gestire l’immigrazione come una questione offshore? Il modello australiano ha ispirato altri casi: dal Regno Unito con il Ruanda all’Italia con i suoi centri di detenzione in Albania. L’Italia è stata salutata da altri Paesi europei come un esempio da seguire.
BB Credo sia evidente come l’Australia sia diventata un modello per i governi europei su come confinare le persone in luoghi remoti, trasformando la gestione dell’immigrazione in una questione offshore e legittimando tali pratiche in tutto il mondo. Non solo ma l’Australia ha attivamente promosso queste politiche a livello internazionale. Ad esempio, nel 2016, una delegazione di politici danesi ha visitato il Paese per osservare da vicino il sistema di detenzione offshore. Al loro ritorno, hanno avviato un dibattito nazionale che ha portato poi all’adozione di una politica simile in Danimarca. Anche l’ex primo ministro australiano, Tony Abbott, ha visitato il Regno Unito, dove ha discusso a lungo di queste pratiche, favorendone l’adozione. Non si tratta solo di esportare un modello operativo: anche il linguaggio utilizzato dall’Australia è stato adottato da altri Paesi. Il Regno Unito, per esempio, ha fatto proprio lo slogan “stop the boats”, esattamente come in Australia. Come scritto nel libro, la finalità del modello australiano è duplice: portare al di fuori di un determinato quadro giuridico specifici processi decisionali e anticipare, prevenendone l’ingresso sul territorio, l’espulsione di coloro che riceveranno un diniego alla domanda di protezione. Una pratica imitata ovunque, ora anche in Italia. 

Chi può fermare questa tendenza? In Italia ci stanno provando i tribunali, con tutte le conseguenze propagandistiche del caso.
BB È importante guardare all’Australia non solo come modello negativo ma anche come una fonte da cui trarre insegnamenti. Possiamo imparare molto dalla società civile australiana e dai rifugiati che hanno vissuto questo sistema e vi si sono opposti, generando una conoscenza preziosa sulla resistenza a tali politiche. Credo sia fondamentale che Paesi come l’Italia guardino anche a questi aspetti, per comprendere appieno le conseguenze e le reazioni che questo tipo di approccio può generare.
Non sto dicendo che in Australia la società civile abbia ottenuto risultati tangibili. I rifugiati non hanno ancora ottenuto nulla, ma è importante che la gente riconosca come il Paese li abbia strumentalizzati per mantenere il potere. Questa politica manipolatrice non solo ha danneggiato i rifugiati ma anche la cultura politica in generale, nonché i principi e i valori della democrazia. Non possiamo fare molto, ma possiamo continuare a condividere queste storie con chi ha una comprensione più profonda del fenomeno e si impegna a umanizzare i rifugiati. È un processo lungo, complesso e faticoso, ma è l’unica strada possibile: solo restituendo umanità ai rifugiati possiamo sfidare la narrativa imposta dai governi. 

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