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Diritti / Intervista

Behrouz Boochani. L’umanità rifugiata nella letteratura

© Add editore

Lo scrittore curdo autore di “Nessun amico se non le montagne” è stato rinchiuso per anni nel centro di detenzione di Manus a causa delle politiche di respingimento dei richiedenti asilo dell’Australia. Un modello che de-umanizza le persone, replicato da un numero crescente di Paesi, europei e non. Lo abbiamo intervistato

“Sono convinto che la letteratura abbia il potenziale per provocare cambiamenti e per sfidare la struttura del potere. La letteratura ha il potere di darci la libertà. Sono chiuso in prigione da anni ma la mia mente non ha mai smesso di produrre parole che mi hanno portato oltre i confini, in luoghi sconosciuti. Le parole sono più potenti delle sbarre di questa prigione”. Con queste parole nel 2019 lo scrittore, giornalista e attivista Behrouz Boochani ha ritirato virtualmente il Victorian Prize, il più importante premio letterario australiano per il libro “Nessun amico se non le montagne” (Add editore, 2018). In quel momento, infatti, lo scrittore si trovava in un centro di detenzione per richiedenti asilo sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea.

Nato nel Kurdistan iraniano nel 1983, Boochani è dovuto fuggire dal proprio Paese nel maggio 2013. Dopo aver raggiunto l’Indonesia ha tentato la traversata dell’oceano Pacifico per raggiungere l’Australia e chiedere asilo politico. Ma il 17 luglio 2013, pochi giorni dopo il suo arrivo, è entrato in vigore il “Regional resettlement agreement”, un accordo tra il governo australiano e quello della Papua Nuova Guinea in base al quale tutti i richiedenti asilo (famiglie e minori compresi) venivano collocati a tempo indeterminato nel centro di detenzione di Manus.

Nonostante le difficili condizioni nel centro e la rigida sorveglianza, Boochani è riuscito a entrare in possesso di un telefono cellulare attraverso il quale è riuscito a comunicare, tra gli altri, con Omid Tofighian (docente, ricercatore e attivista per i diritti umani): da questo lungo e intenso scambio di messaggi ha preso forma “Nessun amico se non le montagne”. Proprio la risonanza ottenuta dal libro, oltre agli editoriali e gli articoli pubblicati su media internazionali come il Guardian hanno contribuito a far crescere l’attenzione sulle condizioni dei richiedenti asilo alle porte dell’Australia.

Dopo la detenzione a Manus (dal 2013 fino alla chiusura formale del centro nel 2017) Boochani ha lasciato Papua Nuova Guinea nel novembre 2019 con un visto per la Nuova Zelanda, dove l’anno successivo ha ottenuto lo status di rifugiato. Altreconomia ha potuto incontrare lo scrittore curdo durante il suo tour europeo di presentazione del suo libro che ha fatto tappa a Parma, presso la sede di Ciac onlus, a fine maggio 2023.

Behrouz Boochani che cosa le ha dato la forza di non arrendersi durante la detenzione a Manus?
BB
Fin dai primi giorni in cui sono stato deportato ho iniziato a lottare contro quel sistema e a denunciarlo. Sono riuscito a far entrare di nascosto un telefonino e ho iniziato a scrivere. In tutti quegli anni ho continuato a farlo, ho rilasciato interviste, ho scritto un libro e lavorato a un documentario. Per me è stato molto importante, come scrittore, non arrendermi e continuare a lottare: l’ho fatto per tutti quelli che come me erano detenuti a Manus. Posso dire che questo impegno mi ha aiutato a sopravvivere.

Ci sono state delle proteste?
BB Abbiamo organizzato una grande protesta nel febbraio 2014 al termine della quale circa cento persone sono state ferite e un giovane curdo, Reza Barati, ha perso la vita. Nel 2016 c’è stato un grande sciopero della fame che si è protratto per 12 giorni e a cui hanno partecipato tra le 600 e le 900 persone al termine del quale molti di noi sono stati arrestati dalla polizia. Nel 2017 abbiamo organizzato una nuova protesta contro la decisione delle autorità australiane di chiudere il centro di detenzione in cui ci trovavamo e di trasferirci altrove: abbiamo resistito perché quello che volevamo era la libertà.

Lei descrive il sistema detentivo di Manus utilizzando il termine kyriacale. Può spiegarci meglio che cosa significa?
BB Si tratta di un concetto che appartiene alla terminologia del femminismo. L’ho utilizzato per spiegare il funzionamento burocratico del centro, all’interno del quale le persone vengono torturate attraverso l’imposizione di tantissime regole. Si tratta di un sistema di controllo che è stato appositamente concepito per mettere i detenuti in competizione tra loro. E spinge le persone a perdere la propria dignità. Manus è stata la versione originale di questo modello, che poi è stato replicato anche in altri Paesi.

Negli ultimi anni l’Unione europea e la Gran Bretagna stanno adottando politiche di respingimento molto dure ai danni dei richiedenti asilo nel tentativo di tenerli al di fuori dei loro confini. Politiche che sembrano ispirarsi a quello che l’Australia ha fatto per molti anni. Che cosa ne pensa?
BB Non penso che abbiano preso ispirazione: stanno proprio copiando quel modello. L’Australia si è impegnata attivamente per esportarlo in altri Paesi, come il Regno Unito: le politiche che il governo di Londra vuole introdurre, con la deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda, sono le stesse. Anche il linguaggio adottato dai politici è lo stesso. Ricordo che dei politici danesi hanno visitato il centro di detenzione sull’isola di Nauru (nello Stato insulare della Micronesia, ndr) nel 2016 perché volevano replicare quel modello. Non si tratta di un’idea nuova: quella di costruire campi, luoghi separati dal resto della società in cui esiliare le persone è una storia lunga che nel corso degli anni è stata messa in atto da diversi Paesi, penso ad esempio alla prigione di Guantanamo. Ma l’Australia è stato il Paese che ha sviluppato maggiormente quel modello e si è attivato per esportarlo all’estero.

Sempre più spesso, in Europa e negli Stati Uniti, i rifugiati vengono presentati come una minaccia per la sicurezza e non come persone bisognose di protezione in fuga da regimi.
BB Dal punto di vista politico possiamo dire che la situazione sta peggiorando anno dopo anno. Il numero di rifugiati è in aumento e i governi dei Paesi verso cui le persone fuggono sono sempre più spesso governati da partiti di destra. I rifugiati sono stati de-umanizzati, dai media e dalla politica: quando le persone vengono de-umanizzate è più facile trattarle con crudeltà. La situazione sta peggiorando ma al tempo stesso si è creata una rete di persone che si battono per i rifugiati e i diritti umani e che sta crescendo.

Cosa si può fare per contrastare questa de-umanizzazione dei rifugiati?
BB Credo che il modo migliore per farlo sia creare uno spazio in cui i rifugiati si possano raccontare e condividere le proprie storie. Penso che il linguaggio dell’arte e della letteratura siano quelli più potenti per poter raggiungere questo risultato: quando una persona ha la possibilità di conoscere davvero le storie delle persone che fuggono dal proprio Paese, di vederle in volto, capisce meglio. Se questo non avviene, possono solo dare ascolto alla propaganda contro i rifugiati.

Che ruolo hanno i media in tutto questo?
BB Molti hanno avuto un ruolo in questo processo di de-umanizzazione, descrivendo i rifugiati come nemici, potenziali terroristi, spacciatori e persone violente. Dall’altra parte ci sono media che nel tentativo di creare empatia con i rifugiati cadono però nella vittimizzazione, e credo che anche questo sia un approccio sbagliato. Il modo migliore è quello di presentare i rifugiati come esseri umani, come persone che hanno un passato difficile alle spalle e che hanno dovuto lasciare i propri Paesi d’origine. Penso che in un certo modo anche la vittimizzazione sia una forma di de-umanizzazione.

Lei è ancora in contatto le persone che si trovano attualmente nel circuito di detenzione in Australia?
BB Il centro di detenzione di Manus, in cui erano detenuti gli uomini, ha chiuso definitivamente nel 2019, in quel momento c’erano ancora 900 persone nella struttura che sono poi state trasferite, la maggior parte in Australia. Ma rimangono ancora 72 persone che si trovano a Port Mosby, la capitale della Papua Nuova Guinea: sebbene non siano più rinchiuse in un centro, si trovano comunque in condizioni molto difficili. Sull’isola di Nauru, dove venivano deportate le famiglie, c’erano circa duemila persone: anche in questo caso ci sono una trentina di persone che si trovano ancora sull’isola. In Australia non ci sono stati cambiamenti sostanziali: nel Paese ci sono più 30mila richiedenti asilo che da dieci anni (o in alcuni casi anche di più) stanno aspettando che la loro domanda venga valutata. Ora il nuovo governo ha annunciato di voler rilasciare un visto temporaneo a circa 19mila persone: anche se lo faranno, ce ne sono almeno 11mila che resteranno ancora in un limbo.

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