Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Interni / Opinioni

Inflazione e caro bollette: perché il problema non è risolto

© Bastian Riccardi - Unsplash

Governo e Autorità promettono di sanare l’incremento dei costi con bonus energia, riduzione dell’Iva e degli oneri generali di sistema. Ma non affrontano le cause tutte speculative del disastro. “Dimostrano di non aver capito che cos’è successo. Oppure vogliono arricchire il mondo della finanza”, osserva Remo Valsecchi

L’inflazione è l’effetto-sintesi della politica economica. Se registra un incremento senza precedenti negli ultimi quarant’anni, chi è delegato a governare il sistema nel solo interesse della collettività qualche domanda dovrebbe porsela. Ma andiamo per gradi. Il grafico che segue indica le variazioni annuali, con riferimento a dicembre, dal 1996 al 2022 rilevate da Eurostat.

Fonte: Eurostat, 2023

La Banca centrale europea ha fissato un limite massimo annuo, che può definirsi fisiologico, al 2% (la linea arancione). Le variazioni superiori al 2% sono sempre state conseguenti a situazioni particolari. Nel 2001, ad esempio, con l’attentato delle Torri Gemelle, nel 2007-2008, con la cosiddetta “bolla dei subprime“, e nel 2012 con la crisi dei “debiti sovrani”. Fatti concreti che hanno provocato una variazione dell’inflazione superiore al limite fissato. Anche l’attuale, con livello notevolmente superiori ai precedenti, ha cause precise.

Facciamo subito chiarezza: la causa non è la pandemia da Covid-19, tanto che nel 2020 e nei primi mesi del 2021 il tasso di variazione dell’inflazione è stato negativo a causa del naturale crollo della domanda. E nemmeno è dovuto a un altrettanto naturale aumento al termine del periodo pandemico, visto che tale periodo si è protratto sino ai primi mesi del 2022.

Nemmeno la guerra russa all’Ucraina, come spesso ci dicono, è stata causa del paradossale aumento dell’inflazione, visto che l’aumento è iniziato nell’agosto 2021, due mesi dopo l’inizio dell’aumento dei prezzi sui mercati finanziari di gas e energia elettrica e sette mesi prima dell’inizio della guerra. Non si può escludere che la guerra possa aver influenzato l’inflazione nel 2022, per carità, ma al massimo nei limiti registrati negli anni delle precedenti crisi e forse meno, considerato il peso dei belligeranti nell’economia mondiale.

La Russia, per il nostro Paese e per il resto degli Stati dell’Unione europea, era il principale fornitore della primaria fonte fossile energetica, il gas. L’importazione, come abbiamo spiegato nel dossier “Carissimo gas”, è regolata da contratti pluriennali con prezzo fissato e indicizzato alle variazione del prezzo del petrolio (Brent). Rispetto al 2019 -anno utilizzato come riferimento poiché il 2020 è anomalo per la pandemia, che ha provocato la consistente riduzione di tutti i consumi, e anche dell’inflazione- ha avuto una variazione media, come rilevabile dalla tabella, del 35,59%, e non del 385,79,15% del Punto di scambio virtuale (Psv) o del 448,09% del Title transfer facility (Ttf) di Amsterdam.

Ammettendo che la guerra russa all’Ucraina possa aver contribuito all’aumento dell’inflazione, e compariamo questo incremento alle precedenti crisi, siamo, nel 2022, almeno dieci punti percentuali in esubero.

È altrettanto indiscutibile che il caro energia abbia provocato l’aumento dell’inflazione ma la vera origine si chiama speculazione, quella che la politica ha consentito, anzi, ha letteralmente avallato. Non servono molte parole per spiegarlo, è sufficiente il risultato d’esercizio, al lordo delle imposte di Eni del 2022 di 22,066 miliardi di euro, oltre il doppio dell’utile lordo del 2021 che ammontava a 10,685 miliardi e un potenziale dividendo del 3,91%, che rapportato alla quotazione attuale sarebbe un rendimento del 29,10%. Se Eni avesse avuto un maggior costo nell’acquisto di gas naturale il risultato del 2022 sarebbe stato inferiore a quello del 2021. Eni, peraltro, è il principale operatore di settore ma non è l’unico e se tutti hanno avuto un risultato simile -aggiungendo che i maggiori costi energetici sostenuti dalle altre imprese produttrici di beni e servizi sono state, ovviamente, trasferite sui loro prezzi di vendita-, ecco spiegate le ragioni dell’aumento del 12,34% dell’inflazione nel 2022.

Fonte: Eurostat, 2023

La politica però è euforica, e certa stampa la sostiene, perché a marzo di quest’anno l’inflazione, su base annua, è scesa secondo l’Istat al 7,7% e secondo Eurostat, che preferisco utilizzare per la possibile comparazione con gli altri Paesi dell’Area euro, è scesa al 8,18%.

Il problema inflazione è quindi risolto o in fase di risoluzione? Niente affatto, al solito l’informazione non è corretta e non spiega che l’aumento su base annua significa che l’indice di inflazione del mese di marzo 2022 è rapportato a quello del marzo 2021 che era del 3,2% e, pertanto, l’inflazione, dal gennaio 2021 è pari al 11,38%. Che cosa è cambiato? Nulla. I tassi di inflazione che mensilmente ci vengono comunicati sono la variazione rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, se su base annua, o la variazione rispetto al mese precedente, se su base mensile.

A marzo 2023 l’indice di inflazione è stato 120,40 e l’indice dicembre era 121,10 con una variazione in diminuzione dello 0,58%. Il grafico riporta le variazioni annuali e l’incremento mensile mentre l’area color verde indica il tasso di inflazione rispetto alla base 100 del 2015, cioè indica quanto potere di acquisto hanno perso, dal 2015, stipendi, salari, pensioni e quanto si sono svalutati i risparmi.

L’incremento dell’inflazione è quasi tutto nei due ultimi due anni, infatti l’indice al 31 dicembre 2020 era di 103,50 contro il 107,80 del dicembre 2021 e il 121,10 del dicembre 2022, a gennaio 2023 sembrava ci fosse un’inversione di tendenza con un indice di 119,30 ma l’indice di marzo è risalito a 120,40, smentendo l’ipotesi, come lo stesso grafico evidenzia.

Del resto per contenere l’incremento dell’inflazione sono necessari interventi strutturali che, principalmente, contrastino la speculazione a danno del sistema sociale. Lo stabilisce anche la nostra Costituzione al troppe volte dimenticato articolo 42, ma non ce ne sono stati e non solo negli ultimi mesi con il nuovo governo ma nemmeno con quelli precedenti.

L’unico intervento per il contenimento, non per la riduzione, dell’inflazione è l’aumento del tasso di riferimento da parte della Banca centrale europea che, però, è sbagliato e fuori luogo non essendo un’inflazione da aumento della domanda. L’intervento ha solo prodotto un’ulteriore riduzione del potere d’acquisto anche se non nominale, pur non essendo il costo del denaro nel paniere per il calcolo dell’inflazione, a causa dell’aumento delle rate di mutuo, per le famiglie, e del costo del denaro, per le imprese che, ovviamente, anche questo viene trasferito sul prezzo dei beni e servizi venduti.

Invece di preoccuparsi della riduzione delle imposte per agevolare i redditi più alti, sarebbe più opportuno introdurre un meccanismo di indicizzazione degli scaglioni imponibili per evitare che l’inflazione finisca con applicare aliquote più alte rispetto al reale potere d’acquisto di stipendi, salari e pensioni.

Ma la politica è convinta, sempre sostenuta da certa informazione, che l’andamento del prezzo del gas naturale e dell’energia elettrica in forte riduzione dallo scorso dicembre, di cui rivendica fantomatici meriti, possa risolvere il problema. Ma non sarà così.

Anche la riduzione dei prezzi del gas fossile ha una precisa ragione che non ci preserva, nei prossimi mesi, dal possibile ripetersi di aumenti simili a quelli del 2021 e 2022.
La ragione della riduzione del gas sta solo nella consistente riduzione dei consumi, cioè, in termini economici, della domanda.
Nel gennaio 2023, il mese normalmente con i consumi più alti, sono stati il 75% dei tre anni precedenti e il 71% dell’ultimo anno normale pre pandemia, il 2019, e negli ultimi sei mesi del 2022 sono stati, complessivamente, l’81,28% dell’anno precedente.

Il meccanismo dei prezzi fissati dai mercati finanziari con i meccanismi dei “futures” -che si perfezionano con pagamenti e consegna del gas tre o quattro mesi dopo- ha fatto sì che gli operatori, magari un po’ sprovveduti, ma anche gli operatori finanziari speculativi, con l’aspettativa dei normali consumi degli anni precedenti, poi non avvenuti, e con il timore quotidianamente ventilato di una possibile mancanza di gas naturale causa la guerra, si siano, in agosto e settembre, preoccupati di accaparrare il gas subendo la speculazione degli importatori che hanno applicato i prezzi fissati attraverso i mercati finanziari, Ttf o Psv, che, peraltro, rappresentano il 2,97% del totale come spiega l’Autorità di regolazione del settore nella sua Relazione del luglio 2022 a Parlamento e governo.

Poi sono mancati i consumi, le importazioni non hanno subito flessioni, tanto che le scorte -cioè il gas stoccato- è aumentato di 2,59 miliardi di metri cubi mentre negli anni precedenti sono quasi sempre diminuite o aumentate in misura notevolmente inferiore, e le esportazioni sono salite a 3,75 miliardi di metri cubi -nel 2021 erano state di 1,54 miliardi e negli anni precedenti erano mediamente di 300 milioni di metri cubi-.
Le aspettative di consumo non si sono avverate, il timore di riduzione delle importazioni non ha avuto riscontro e, quindi, la conseguenza naturale non poteva che essere la diminuzione dei prezzi e bollette più sopportabili anche se sono sempre il doppio del prezzo del giugno 2021 e più del triplo di quelli pagati nel 2020 quando i consumi, causa la pandemia, si sono sensibilmente ridotti.

Fanno sorridere, anzi preoccupano, le affermazioni dell’Autorità Arera e del suo presidente che si fregiano di un merito che non hanno. Semmai hanno la responsabilità di quello che è successo e che potrebbe ancora succedere. Non hanno capito che la speculazione è stata frenata da una disgrazia, quella cioè di una crisi ambientale che potrebbe, anche in futuro, contribuire a contenere i prezzi dei prodotti energetici e dell’inflazione ma che sarà causa di altri disastri come quello della siccità e della carenza di acqua, di cui nessuno può farne a meno.

Non si può escludere poi che numerosi operatori, quei piccoli che non importano ma che acquistano dagli importatori, abbiano avuto perdite consistenti e che, probabilmente, abbiano chiuso i battenti. Ce lo confermerà o meno la prossima relazione al Parlamento e al governo dell’Arera, cosa che potrebbe essere positiva con lo sfoltimento degli operatori di una filiera assurda e incomprensibile nella erogazione di beni e servizi come quelli energetici, semplici e lineari. L’attuale struttura ha fatto lievitare, nel 2021, i volumi di vendita del gas dai 76 miliardi di metri cubi importati o prodotti, e consumati a 342 miliardi di metri cubi con evidenti quanto inutili costi per gli utenti (si veda sul punto anche qui il nostro dossier “Carissimo gas”).

Se il governo e la politica in generale, compresa l’opposizione, credono di risolvere la questione con i bonus energia e con il contenimento delle bollette riducendo l’Iva e gli oneri generali di sistema, si sbagliano e dimostrano di non aver capito che cosa è successo. Oppure vogliono l’impoverimento dei cittadini per arricchire il mondo della finanza e delle speculazioni.

I bonus energia sono infatti un modo di affrancare i profitti degli operatori di settore ponendo a carico della fiscalità generale il disagio sociale ed economico che creano. Come si suol dire, importante è non disturbare il manovratore che, nel caso specifico, si chiama finanza.

Gli oneri di sistema, di cui era stato sospeso l’addebito dal precedente governo, da aprile ritorneranno in bolletta con un conseguente ulteriore aumento. Questi oneri non sono un costo diretto dell’energia, del gas o del servizio idrico, dove si chiamano “oneri di perequazione”, ma sono un’ulteriore imposizione fiscale perché sono destinati a spese dello Stato estranee al servizio. Non sono sufficienti le imposte dirette, quelle che paghiamo con le dichiarazioni dei redditi o le ritenute su stipendi e pensioni, l’Iva e le accise, aggiungiamo anche queste, come altre. Tanto gli utenti non lo sanno.

Non è sufficiente una riforma fiscale che riduca le “tasse”, con le quali normalmente, anche se sbagliando, vengono chiamate le imposte sui redditi, le uniche che rispettano il principio del concorso alle spese dello Stato in rapporto alla propria capacità contributiva. Anche l’Iva, le accise e questi costi impropri sono “tasse” e il loro probabile aumento, che incide in misura maggiore sulle persone e le famiglie più deboli, non è da escludere.

Questi addebiti sulle bollette sono riscossi dalla Cassa servizi ambientali (Csea), ente pubblico Economico controllato da Arera e dal ministero dell’Economia, che svolge un mero servizio di tesoreria. Successivamente, come si evince dal bilancio 2021, quegli addebiti sono erogati a enti di regolazione -esattamente 6.939.814.000 euro- e ad altre imprese -6.273.741.000 euro- senza nemmeno una dettagliata spiegazione in bilancio nonostante l’ingente importo; nello stesso bilancio l’attivo circolante ammonta a 8.408.317.688 euro, di cui 7.097.787.083 euro su depositi bancari. Forse, piuttosto che ripristinarli da aprile, sarebbe più opportuno eliminare definitivamente quegli “oneri di sistema”. No?

E soprattutto: quando finiranno queste modalità di gestione dei servizi pubblici? I servizi pubblici sono tali perché devono soddisfare bisogni essenziali e irrinunciabili per le persone, le famiglie e le imprese e dovrebbero essere uno strumento con il quale realizzare la distribuzione dei redditi e della ricchezza. Sono servizi a domanda individuale e, per tale ragione, devono essere pagati dagli utenti ma in ragione del loro costo reale e non per produrre profitti da destinare ai mercati finanziari. È quello che ha voluto la maggioranza dei cittadini con l’abrogazione della remunerazione del capitale investito in occasione del referendum del 2011 (sull’acqua e e non solo) che però la politica ha ignorato e disatteso.

Se proprio i servizi pubblici sono l’origine di un’inflazione a due cifre, la più iniqua di tutte le “tasse” perché colpisce soprattutto le classi sociali meno abbienti, qualcuno ha dimenticato il vincolo posto dagli articoli 42 e 43 della Costituzione.

La riforma complessiva del sistema che restituisca la gestione dei servizi pubblici allo Stato e alle sue emanazioni deve essere il reale obiettivo politico. Non si tratta del ritorno al passato ma del superamento di un sistema che è completamente fallito creando povertà e disagio sociale. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, spesso richiamato per giustificare le attuali scelte politiche, non impone il vincolo di rispetto delle regole del mercato e della concorrenza per i servizi, anche a rilevanza economica, se sono ostative all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Che certo non è quella dei profitti e della finanza ma quella di essere supporto allo sviluppo sociale ed economico.

Remo Valsecchi, già commercialista, è autore del nostro dossier “Carissimo gas”

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati