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Nel 2022 Eni ha fatto utili pari a 20,4 miliardi di euro. L’80% degli investimenti è ancora fossile
A trainare i profitti “più alti di sempre” sono l’esplorazione e produzione di idrocarburi, la vendita di gas e la raffinazione e vendita di petrolio. La gran parte degli utili andrà come dividendi e riacquisto di azioni proprie a vantaggio degli azionisti, per il 70% privati. “Risultati oltraggiosi”, denunciano ReCommon e Greenpeace
Nel 2022 Eni ha realizzato utili per 20,4 miliardi di euro, il doppio rispetto al 2021. Risultati inediti, quelli approvati dal Consiglio di amministrazione della multinazionale il 22 febbraio, che per il colosso fossile sono dovuti all'”eccellente andamento” dei settori dell’esplorazione e produzione di idrocarburi (16,4 miliardi), della vendita di gas (oltre due miliardi), della raffinazione e della vendita di petrolio e di semilavorati (1,9 miliardi). Nelle 38 pagine che presentano i conti mancano due parole chiave: Ucraina e speculazione.
L’amministratore delegato Claudio Descalzi, commentando i profitti più alti di sempre, ha affermato che “le priorità strategiche restano confermate: continueremo a investire per assicurare la stabilità e regolarità delle forniture per soddisfare il fabbisogno energetico e per decarbonizzare le nostre attività e l’offerta ai clienti, mantenendo la disciplina finanziaria indispensabile per garantire ritorni attrattivi agli azionisti”.
Quelli che per Descalzi sono “ritorni attrattivi agli azionisti” per ReCommon e Greenpeace sono in realtà profitti oltraggiosi, peraltro realizzati mentre “la crisi climatica si aggrava e milioni di persone sono alle prese con maxi bollette e caro energia”. È un bel colpo per pochi. “La gran parte di questi profitti andrà infatti in forma di dividendi e riacquisto di azioni proprie a vantaggio degli azionisti, per il 70% privati. Una situazione doppiamente oltraggiosa, soprattutto perché anziché investire su una seria svolta verso la decarbonizzazione, l’azienda si limita a fare greenwashing, mentre continua a destinare gran parte dei propri investimenti a quelle stesse fonti fossili che hanno causato e alimentano la crisi climatica. Inoltre, puntare ancora sul gas significa condannare le famiglie e le imprese italiane a pagare bollette molto care anche nei prossimi anni”. Eni non è l’unica compagnia energetica ad aver annunciato profitti record. Nelle scorse settimane lo hanno fatto Exxon Mobil (oltre 52 miliardi di euro), TotalEnergies (quasi 34 miliardi di euro), Shell (quasi 38 miliardi di euro) e BP (oltre 26 miliardi di euro).
Gli investimenti tecnici di Eni risultano però ancora fortemente sbilanciati sul business fossile, nonostante l’annunciata “priorità” di decarbonizzazione ribadita da Descalzi nel presentare i conti dell’esercizio. Lo mostrano i dati riportati dalla stessa società: nel 2022 gli investimenti tecnici ammontano a poco più di otto miliardi di euro. Il 79% di questi, oltre 6,3 miliardi, riguardano il solo comparto “Exploration & Production”, e in particolare lo sviluppo di giacimenti di idrocarburi, in particolare in Egitto, Costa d’Avorio, Congo, Emirati Arabi Uniti, Messico, Iraq, Italia e Algeria.
Addirittura l’attività di raffinazione in Italia e all’estero (491 milioni di euro) e di marketing della distribuzione di prodotti petroliferi (132 milioni) pesano di più degli investimenti fatti per lo “sviluppo del business delle rinnovabili, acquisizione di nuovi clienti e attività di sviluppo di infrastrutture di rete per veicoli elettrici”, che sono in quota al veicolo Plenitude, limitati a 481 milioni di euro.
Tanto scarsi sono gli investimenti nelle rinnovabili -in proporzione al totale- quanto lo sono gli utili che derivano dal settore stesso (si veda la tabella più in alto). A riprova che la svolta sostenibile del colosso sta giusto nelle pagine pubblicitarie, nelle inserzioni sanremesi o negli spot. Tutto ciò accade “nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia abbia raccomandato di evitare nuovi investimenti in petrolio e gas per riuscire a limitare l’aumento della temperatura media globale entro la soglia di sicurezza di 1,5° gradi centigradi”, ricordano ancora ReCommon e Greenpeace.
Ma Eni non ci sente. Nel 2022 ha incrementato infatti il portafoglio di idrocarburi di circa 750 milioni di barili equivalenti di petrolio, ha poi concluso “importanti scoperte” nell’offshore dell’Angola e Baleine, nell’offshore della Costa d’Avorio. “Le scoperte a gas di XF-002 negli Emirati Arabi Uniti e Cronos nell’offshore di Cipro hanno inoltre contribuito al risultato dell’anno -si legge nel documento di sintesi dei conti-. Il recente successo esplorativo di Zeus sempre nell’offshore di Cipro, ancora in corso di valutazione, e di Nargis in Egitto nel gennaio 2023, hanno confermato il potenziale minerario dell’area del Mediterraneo orientale”. Stessa “maledizione” fossile che vale per il Mozambico: “A novembre 2022 -spiega Eni- il primo carico di gas naturale liquefatto (Gnl) prodotto dal giacimento Coral, nelle acque ultra-profonde del bacino di Rovuma, in Mozambico, è partito dall’impianto Coral sul floating liquefied natural gas (Flng). Il progetto rappresenta un traguardo significativo nel business globale del gas liquefatto, conseguito facendo leva sulle nostre capacità di realizzazione rispettando tempi e costi nonostante gli effetti della pandemia, e colloca il Mozambico come nuovo rilevante hub nel Gnl”.
Le vendite di gas di Eni nel 2022 sono state pari a 60,52 miliardi di metri cubi, in diminuzione del 14% rispetto allo stesso periodo del 2021 “per effetto dei minori volumi approvvigionati dalla Russia e dalla Nigeria”. Dopo anni di preponderanti importazioni di gas dalla Russia, Eni glissa sullo scenario squassato dagli ex fornitori alleati. Il boom dell’utile operativo adjusted sul gas è reso possibile non dalle quantità ma dal prezzo “spot” del gas trattato (sia quello al Punto di scambio virtuale per l’Italia sia il Ttf alla Borsa di Amsterdam). Nel 2021 Psv e Ttf erano rispettivamente a 487 e 486 (euro per migliaia di metri cubi), nel 2022 sono schizzati rispettivamente a 1.294 e 1.279. Oltre il 160% in più (le “ragioni” speculative la ha ben spiegate Remo Valsecchi nel nostro dossier “Carissimo gas”).
“È ora che queste compagnie abbandonino definitivamente le fonti fossili per decarbonizzare urgentemente le proprie attività, e inizino a pagare per le perdite e i danni che hanno causato contribuendo in modo decisivo alla crisi climatica e alle sue devastanti conseguenze per le persone e per il Pianeta -continuano le organizzazioni-. Spetta anche agli investitori nazionali e internazionali, che beneficiano di questi altissimi profitti, assumersi le proprie responsabilità e chiedere con forza al management delle società fossili un drastico cambio di rotta”. Greenpeace e ReCommon chiedono inoltre che la “tassazione degli extra-profitti delle società dell’oil&gas sia rafforzata dai governi europei e sia resa permanente anziché limitata a congiunture di crisi energetiche, così da liberare maggiori risorse pubbliche per far fronte alla povertà energetica e favorire un’equa transizione verso le fonti rinnovabili”.
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