Diritti / Inchiesta
Armi e munizioni da Roma ad Ankara: il flusso milionario non si è fermato
Inchiesta sul flusso crescente di armi e munizioni che lega la provincia di Roma e la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Un movimento continuo che nel 2019 ha raggiunto valori milionari inediti. Eppure se ne sa poco. Ecco chi si muove nel mercato. Durante l’offensiva turca in Siria, inoltre, il Governo aveva annunciato lo stop a nuove licenze. Ma il decreto è inaccessibile
Un flusso crescente di armi e munizioni lega la provincia di Roma e la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. È un movimento continuo, sotterraneo e quasi impercettibile, che nel 2019 ha raggiunto valori milionari inediti. Eppure se ne sa poco. Non è finito sotto i riflettori accesi a metà ottobre dello scorso anno, in occasione dell’offensiva militare sferrata dall’esercito turco nel Nord-Est della Siria. Allora i fari sulla vendita di armi dell’Italia verso la Turchia, infatti, si sono concentrati (comprensibilmente) soltanto su alcune tipologie di materiali d’armamento (elicotteri e batterie missilistiche) e soltanto su alcune importanti società attive nel comparto, Leonardo (ex Finmeccanica) in testa. In realtà, il quadro di queste relazioni armate intrecciate alla diplomazia, contraddistinte peraltro da scarsa trasparenza, è più complesso e i suoi protagonisti molteplici. Siano questi pubblici, nelle vesti di ministeri chiave come Esteri e Difesa, o privati, data l’iniziativa commerciale di aziende meno note rispetto al colosso Leonardo e impegnate soprattutto nel comparto del munizionamento.
Procediamo con ordine. Alcune cifre della partnership commerciale tra Italia e Turchia a proposito di armi sono note e impressionanti e contribuiscono ad aver più chiaro il contesto. Appena sette anni fa, nel 2013, il nostro Paese, tramite l’Unità per le autorizzazioni ai materiali d’armamento (UAMA) insediata presso il ministero degli Esteri, aveva dato il via libera all’esportazione di “materiali d’armamento” con destinazione Ankara per 11,4 milioni di euro. Nel 2018 -il dato più recente fotografato dalla Relazione governativa sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento ex legge 185 del 1990- la voce “autorizzazioni” è schizzata a quota 362,3 milioni, collocando così la Turchia al primo posto tra i Paesi della NATO e al terzo su scala globale dopo Qatar e Pakistan. Che cosa abbiamo deliberato di esportare? Solamente “pezzi per produrre elicotteri” e che “potrebbero essere considerati duali”, come ebbe a dire nelle settimane dei bombardamenti sui curdi Guido Crosetto, presidente della Federazione delle aziende italiane dell’aerospazio e della difesa (AIAD), la Confindustria delle imprese degli armamenti, e già sottosegretario alla Difesa tra il 2008 e il 2011? Niente affatto. Lo dimostra l’elenco pubblico dei materiali “esportabili” ad Ankara: armi di calibro superiore a 12,7 millimetri, bombe, munizioni, siluri, razzi, aeromobili, software, tecnologie, corazzature, apparecchiature per la direzione del tiro.
Ma c’è di più. Dai rapporti all’Unione europea sulle esportazioni di materiali d’armamento emerge un elemento che non traspare dalla Relazione che il governo italiano invia al Parlamento: quello relativo al numero e al valore delle autorizzazioni rilasciate per tipologie specifiche per ogni Paese destinatario. E proprio dai report Ue è riscontrabile come nel biennio 2017-2018 l’Italia sia stato il Paese che più di tutti in Europa ha autorizzato l’esportazione di “Munizioni e dispositivi di graduazione di spolette e loro componenti appositamente progettati” (ML3), cioè munizionamento militare, a beneficio delle forze armate di Ankara: si tratta nel 2017 di sei licenze per un valore complessivo di 55.784.800 euro e nel 2018 di altre tre per un valore di 49.231.350 euro. Poche licenze dunque (nove in totale) per un valore consistente (circa 105 milioni di euro).
L’Italia esporta in Turchia armi di calibro superiore a 12,7 millimetri, bombe, munizioni, siluri, razzi, aeromobili, software, tecnologie, corazzature
“Autorizzazione” però non significa “consegna”: occorre tempo per produrre e consegnare materiali bellici. Su questo intervallo di tempo sale la nebbia, anche perché l’Italia comunica all’Unione europea soltanto i valori generali delle consegne effettuate e non quelli per specifica tipologia.
Ma un modo per capire che cosa sia stato effettivamente esportato c’è. Questa faccia della medaglia, quella meno approfondita, è possibile illuminarla grazie al servizio delle “Statistiche del commercio estero” dell’Istat, con dati aggiornati ai primi nove mesi di quest’anno e relativi all’export effettivo della voce “Armi e munizioni”. È tutta un’altra partita rispetto agli elicotteri di Leonardo. L’andamento del 2019 è clamoroso: tra gennaio e settembre, armi e munizioni per 76,2 milioni di euro sono partite dall’Italia e sono arrivate in Turchia. Nello stesso periodo del 2018 giunsero “solo” a quota 24,9 milioni. Stando ai dati territoriali forniti dall’Istat ed elaborati da Altreconomia, chi ha trainato l’export dei primi tre trimestri dello scorso anno, facendo un balzo di 50 milioni di euro (da 13,8 a 63,3 milioni di euro), sono state aziende con sede nella provincia di Roma (seguite a grande distanza da Brescia e Lecco). I nomi degli esportatori, ovviamente, non sono noti ma incrociando gli atti parlamentari e i bilanci è possibile ricostruire il contesto. Si arriva in questo modo a definire il ruolo di Meccanica per l’elettronica e servomeccanismi, l’acronimo è MES spa, una società fondata nel 1984, fornitore e partner del ministero della Difesa, destinataria negli anni recenti di diverse autorizzazioni per l’esportazione di prodotti di munizionamento verso la Turchia.
Tra il 2017 e il 2018 l’Italia ha autorizzato la vendita ad Ankara di munizioni militari per circa 105 milioni di euro, per un totale di nove licenze. Siamo i primi in Europa
Nel 2017 MES si è occupata tra le altre cose della fornitura ad Ankara di 1.030 unità di “Colpo completo” calibro 105/51 millimetri “HEAT-T” da 680mila euro circa, o ancora di una da 1,3 milioni di euro per 2mila unità della stessa tipologia. Identico registro nel 2016, per diverse migliaia di unità di “Colpo completo” calibro 105 millimetri “TPCSDS-T” per oltre 5 milioni di euro. Le cifre sono rilevanti, ma ancora non così consistenti. Tornando al 2017, dagli atti parlamentari emerge poi un’autorizzazione governativa a MES da 50,6 milioni di euro per ulteriori 14.500 unità di “Colpo completo” calibro 120 millimetri “HEAT-MP-T (ME 434)”, che risulterebbe riferirsi sempre alla Turchia. E così per il 2018, per autorizzazioni superiori a 20 milioni sempre per materiale classificato come “Colpo completo” calibro 105/51. Intese legittime dalle quali potrebbe derivare quel picco delle “consegne” rilevato dall’Istat nel 2019, proporzionale peraltro alla crescita del fatturato di MES, passato dai 16 milioni di euro del 2016 ai 51 milioni del 2018. E coerente con i valori di esportazioni autorizzate per “munizionamento e spolette” indicato nella Relazione europea.
Il socio unico di MES è la Empire srl, con sede a Torino, che a sua volta appartiene al gruppo Eos guidato dall’imprenditore Stefano Maccagnani (attivo anche nella moda con i marchi “Au197Sm” e “Horo”). MES non è molto nota per le “munizioni per impiego terrestre, navale e aeronautico di piccolo, medio e grosso calibro” che realizzerebbe, come sostiene, “in collaborazione” con l’Agenzia industrie difesa, un ente di diritto pubblico posto sotto la diretta vigilanza del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. I giornali si sono occupati di MES qualche anno fa per il suo progetto in campo sanitario di un esoscheletro realizzato anche grazie a un contributo di Regione Lazio (e iscritto nel bilancio 2018).
Sulle strategie commerciali e sulle ricadute per le autorizzazioni all’export di armi e munizioni verso la Turchia non sembra possibile alcun confronto. Né MES né altre aziende autorizzate da UAMA a esportare ad Ankara hanno infatti accettato di rispondere alle nostre domande. La RWM Italia -gruppo Rheinmetall Defence- si è detta indisponibile a rilasciare interviste o informazioni “per ragioni di riservatezza”. Simmel Difesa -con sede a Colleferro (RM) e di proprietà del gruppo francese Nexter System- non ha dato alcun riscontro. Anche l’Agenzia del ministero della Difesa -direttore generale Gian Carlo Anselmino, già Finmeccanica- ha preferito mantenere un profilo basso.
Tra le aziende interessate agli interscambi di munizioni e spolette anche “Meccanica per l’elettronica e servomeccanismi” (MES), partner e fornitore del ministero della Difesa
La luce sulle armi in Turchia pare essersi già spenta. Eppure, durante i primi bombardamenti turchi sui territori popolati dai curdi in Siria era stata posta qualche attenzione sulle autorizzazioni a beneficio di Leonardo, il colosso quotato in Borsa (9,13 miliardi di euro di ricavi nei primi nove mesi del 2019) e del quale lo Stato possiede il 30,2% delle azioni tramite il ministero dell’Economia. Un’attenzione giustificata dal ruolo di primo piano dell’azienda guidata dall’amministratore delegato Alessandro Profumo (presidente è Gianni De Gennaro, già capo della polizia): dell’export autorizzato nel 2018 verso tutti i Paesi del mondo, il 67,6% era riferito proprio all’ex Finmeccanica, che in Turchia ha due sedi (Ankara e Gölbaşı) guidate dal capo delegazione Camillo Pirozzi. Quest’ultimo, intervistato dalla rivista Defence Turkey nel 2018, ha dato conto della “collaborazione eccezionale” di Leonardo sul territorio turco a partire delle forniture concepite per “soddisfare le esigenze delle prestigiose forze armate turche” (parole dell’azienda). Tra queste, l’elicottero T129 ATAK, il satellite Göktürk o il sistema VSTM (Vessel Traffic Management System) per controllare porti marittimi e coste. “Leonardo lavora in Turchia, con la Turchia, per la Turchia”, chiarì Pirozzi.
Poi, nell’ottobre 2019, sono arrivati i bombardamenti delle “prestigiose forze armate” di Erdogan a danno delle popolazioni curde delle città al confine con la Siria: Ras El Ain, Kobane, Serekani, Ein Aissa, e tante altre. Attacchi diretti anche a località oltre la “safety zone”, inizialmente dichiarata in maniera unilaterale e profonda 32 chilometri, successivamente ridimensionata a 10 chilometri per i 110 di lunghezza del confine. Durante l’offensiva sui territori del Kurdistan, il governo guidato da Giuseppe Conte, per bocca del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, sotto la pressione della società civile e della Rete italiana per il Disarmo, aveva annunciato in Parlamento la “sospensione” di nuove licenze per l’esportazione di armi -non toccando dunque quelle in essere- e la firma di un decreto ad hoc per lo stop. Ma quell’atto “annunciato” è scomparso dai radar e un mese dopo gli annunci, la Farnesina si è rifiutata di dare riscontro alla nostra richiesta di accesso civico. Le ragioni del “diniego” sono di diversa natura. La prima è politica: il ministero degli Esteri ha giustificato la mancata trasparenza sostenendo di voler evitare un “pregiudizio concreto alla tutela di interessi pubblici inerenti alle relazioni internazionali”. La Turchia sarebbe un partner strategico per il suo ruolo nella “coalizione anti-Daesh” nonché in “preminenti esigenze di stabilizzazione dell’area del Mediterraneo”.
Le autorizzazioni per l’export italiano di “materiali d’armamento” in Turchia sono trentuplicate negli ultimi cinque anni: da 11,4 milioni a 362,3 milioni
La seconda motivazione avrebbe a che fare con le regole. Tutti gli atti dell’Autorità nazionale UAMA -istituita nel 2012 e guidata dal ministro plenipotenziario Francesco Azzarello- sarebbero esclusi dal diritto di accesso per motivi di “sicurezza e difesa nazionale”, “esercizio della sovranità nazionale” e “correttezza” delle relazioni internazionali. Questione prevedibile ma che in questo caso aveva poca attinenza. La richiesta infatti non riguardava atti di UAMA ma il documento (in teoria) firmato dal ministro Di Maio. Collegando l’atto politico di indirizzo del governo con quello amministrativo dell’Autorità, la Farnesina ha issato un muro.
Consapevole del “valore” politico del diniego, però, il capo dell’Autorità nazionale UAMA Azzarello ha voluto provare a chiarire la vicenda: “Tuttavia -ha scritto in una risposta inviata a novembre ad Altreconomia-, in un’ottica di trasparenza, […] si fa presente che il ministro degli Affari esteri […] ha disposto la sospensione del rilascio di nuove autorizzazioni all’esportazione verso la Turchia e, contestualmente, lo svolgimento di un’istruttoria relativa alle autorizzazioni in essere”. Una contraddizione: non c’è trasparenza sull’atto ma “in un’ottica di trasparenza” si conferma che quell’atto esiste.
“Gli sfollati sono oltre 300mila, le vittime già 700 e in diversi villaggi al confine sono già stati espulsi dalla Turchia centinaia di profughi siriani” – Hazal Koyuncuer
Gli attacchi, nel frattempo, sono andati avanti. “L’esercito turco non ha smesso di colpire anche gli ospedali, togliendo luce e acqua alle città”, racconta a metà dicembre 2019 ad Altreconomia Hazal Koyuncuer, portavoce della comunità curda di Milano, in stretto contatto con la Mezzaluna Rossa Curda e l’Ong italiana “Un Ponte per…”. “Gli sfollati sono oltre 300mila, le vittime già 700 e in diversi villaggi al confine sono già stati espulsi dalla Turchia centinaia di profughi siriani. Preparano il rimpatrio di due milioni di persone, parte dei 3,6 milioni di rifugiati presenti, in gran parte siriani. Il Rojava è invaso, la città di Raqqa occupata”. L’Ong indipendente Human Rights Watch ha denunciato a fine novembre le condizioni proibitive per gli sfollati dei territori. Koyuncuer richiama l’Italia alle sue responsabilità e respinge ogni ipocrisia sulla rappresentazione della Turchia come un alleato anti-Daesh. “La città di Afrin è occupata da jihadisti da quasi due anni e la Turchia ha accolto 40mila miliziani al confine con la Siria per dargli in gestione il territorio”. Non è un’esagerazione. In occasione della celebrazione dei 70 anni della NATO, lo scorso dicembre, anche il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha accusato la Turchia di aver “lavorato” con Daesh. Erdoğan non l’ha presa bene. Roma non si sa.
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