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Il sistema di protezione e accoglienza che ancora non c’è. Le proposte del Tavolo asilo

L'illustrazione di Manuela Chiapponi dalla copertina del libro "Ciac. Vent'anni di diritti per tutte e tutti"

A 20 anni dalla nascita dell’accoglienza diffusa dello Sprar, il Tavolo asilo rilancia sei proposte per rimettere al centro i territori e le persone, superando la logica emergenziale. Dal ruolo dei Comuni alla chiusura dei grandi “centri parcheggio” prefettizi, dai capitolati di gestione alla promozione dell’accoglienza in famiglia

A vent’anni dalla nascita del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) in Italia, autentico modello di accoglienza pubblica, diffusa e integrata, il Tavolo asilo e immigrazione ha rilanciato nei giorni scorsi sei proposte concrete per dar vita a quel “sistema che ancora non c’è”. Dal ruolo centrale dei Comuni al superamento dei grandi centri prefettizi, dalla profonda modifica dei capitolati di gestione dei Cas alla co-progettazione tra enti locali e Terzo settore, dalla promozione dell’accoglienza in famiglia all’istituzione di modalità permanenti di consultazione di chi materialmente “fa” l’accoglienza.

Il Tavolo -che include tra gli altri l’Asgi, il Cnca, l’Arci, Emergency, Medici Senza Frontiere, Unire, Refugees Welcome, ActionAid, la Fondazione Migrantes o il movimento Italiani senza cittadinanza- lo ha fatto dopo un lucido sguardo d’insieme sugli anni trascorsi e un elenco dei nodi aperti. A partire dallo strutturale, voluto e mai superato clima di emergenza continua.

Facciamo un passo indietro. Nel 2002 la cosiddetta “Legge Bossi-Fini” (189/2002) dà forma all'”evoluzione” di quello che allora si chiamava Programma nazionale asilo (Pna). Nasce così lo Sprar. Sulla carta il “Sistema” avrebbe dovuto diventare il perno dell’accoglienza nel nostro Paese: diffuso sui territori, casa dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, trasparente e ordinato, capace di costruire reali processi di inclusione sociale.

Il legislatore, però, non ci crede. Nel 2005, quando l’Italia è chiamata a recepire la Direttiva europea 2003/9/CE sulle “norme minime in materia di accoglienza”, i decisori optano per un modello ibrido. Da un lato l’accoglienza diffusa dello Sprar e dall’altro i centri collettivi posti sotto la diretta gestione governativa delle prefetture, oggi chiamati Cas, centri di accoglienza straordinaria. Questa impostazione binaria dominata dalla “logica emergenziale”, come la chiama il Tavolo, ha retto fino ad oggi, “come se i rifugiati fossero un fenomeno estemporaneo e transitorio destinato a finire”.

I posti nello Sprar crescono perciò lentamente e in modo non omogeneo, mentre i Comuni sono invitati a partecipare al Sistema e non obbligati. Risultato: quello che doveva essere il perno resta un corpo gracile e “ancillare rispetto al sistema sempre rimasto dominante, ovvero quello costituito dai centri a diretta gestione governativa”.

Nel 2015 si cerca di ridurre il danno con il decreto legislativo 142. Il sistema nazionale di accoglienza viene così ridisegnato prevedendo un funzionamento per fasi. I centri governativi dovrebbero essere utilizzati solo per lo svolgimento di operazioni di “identificazione, verbalizzazione della domanda e accertamento delle condizioni di salute e di situazioni di particolare vulnerabilità”. Mentre i progetti territoriali dello Sprar avrebbero dovuto assumere l’agognata centralità.

Non è andata così. “A settembre 2016 su 162.000 presenze complessive nelle strutture pubbliche di accoglienza, 26.000 sono i posti Sprar e 136.000 sono i posti nei Cas e nei Cara o comunque in strutture temporanee -ricorda il Tavolo-. Fino al 2018 mai il sistema Sprar è riuscito a garantire, come media nazionale, più del 30% del fabbisogno di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, attestandosi in alcune Regioni del Nord persino al di sotto del 15%. Tale squilibrio non si è mai modificato tanto che ancora dicembre 2021 il sistema Sai (erede dello Sprar) era in grado di garantire solo il 33% dell’intero fabbisogno nazionale”.

Il modello emergenziale detta legge anche grazie a una “radicale mancanza di trasparenza”. Dati scarsi e incompleti e poco controllo danno fiato a speculazioni politiche tra le più “spietate”. E arriva così il colpo di grazia. Nel 2018 il Governo Conte I, con Matteo Salvini ministro dell’Interno, al grido de “la pacchia è finita”, svilisce e stravolge lo Sprar, trasformandolo in Siproimi e sottraendogli, tra le altre cose, l’accoglienza dei richiedenti asilo. Nasce il “sistema parcheggio”. A fine 2020 le funzioni originarie dello Sprar -denominato Sai- vengono ripristinate e il Sistema sembra poter tornare al centro. Ma i nodi restano aperti.

La prima proposta del Tavolo è dunque quella di “attuare il trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale e trasformare il Sai da programma a Sistema unico”. Come? Superando la regola della volontarietà di assumere la scelta da parte degli enti locali e adottando una “programmazione ordinaria degli interventi di accoglienza effettuata secondo quote regionali di posti ordinari ripartiti tra ogni Regione in proporzione alla popolazione residente ed eventuali criteri di diminuzione fondati su altre attività svolte in quel Comune in favore degli stranieri accolti”.

Il secondo punto riguarda la proliferazione dei centri emergenziali e il loro superamento. Non esistono infatti incentivi ad attuare programmi Sai, osserva il Tavolo, e non c’è alcuna procedura che favorisca in concreto la chiusura dei Cas. Tre iniziative sono quindi necessarie: prevedere che i nuovi posti attivati nel Sai vengano portati in detrazione a quelli nei Cas, trasferire sul territorio regionale la rete Cas in quella del Sai, incentivare gli enti locali ad aderire al Sai, assegnandogli un contributo economico vincolato.

Poi c’è il tema dolente dei capitolati di gestione. Gli schemi dei Cas fatti propri dal ministero dell’Interno, infatti, continuano a premiare le strutture di grandi dimensioni, riducendo standard di accoglienza e mortificando l’operato del Terzo settore. È il carburante del “sistema binario” che produce ghettizzazione e disagio e che si dovrebbe, legge 173/2020 alla mano, depotenziare.
“Per perseguire tale obiettivo -segnala il Tavolo- i capitolati di gestione dei Cas andrebbero impostati in modo da scoraggiare l’utilizzo delle grandi strutture collettive e promuovere un’accoglienza diffusa”.

Accoglienza che dovrebbe fare la differenza grazie alla qualità dell’operato e non solamente all’economicità della proposta. È il quarto punto sollevato dal Tavolo: quello cioè di superare la logica dello scambio utilitaristico nella gestione dei servizi di accoglienza e attuare una progettazione condivisa tra enti locali e Terzo settore. Perché oggi la valutazione che prevale è “condotta su un piano meramente rendicontativo senza che venga effettuata una articolata valutazione di impatto sociale su cosa il programma di accoglienza ha prodotto nel territorio interessato sul piano sociale, culturale ed economico”. Come se si trattasse di un mero adempimento.

Un altro punto decisivo secondo il Tavolo è il riconoscimento del valore e la promozione dell’accoglienza in famiglia all’interno del sistema istituzionale. Una pratica rimasta ferma a una “dimensione di mera sperimentazione”, pur avendo dimostrato la sua forza già dagli anni 2000 grazie al Rifugio diffuso a Torino e poi alle progettualità “Vesta” e “Rifugiati in Famiglia” all’interno dell’allora Sprar di Bologna e Parma (a tal proposito il libro “Vent’anni di diritti per tutte e tutti” del Ciac di Parma è un testo preziosissimo).

Per rendere davvero possibile una “sperimentazione su larga scala dell’accoglienza in famiglia”, il Tavolo propone di partire da quelle linee guida, metodologie e strumenti di lavoro che sono già disponibili e di “inserire l’accoglienza in famiglia, a regime, all’interno delle modalità di attuazione dei progetti di accoglienza territoriali”. Le sperimentazioni promosse a livello di welfare locale da recepire ci sono già: Roma, Ravenna, Padova, Bergamo, Bari (tra gli altri). È il caso dell’Albo delle famiglie Accoglienti, “ad oggi lo strumento di policy più avanzato per sostenere stabilmente l’accoglienza in famiglia e altre forme di attivazione della comunità (mentoring, community matching) a favore di rifugiati e altri titolari di protezione”.

Nulla di tutto questo è in ogni caso possibile senza l’ascolto e il coinvolgimento attivo delle associazioni e degli enti di tutela del diritto d’asilo. Ad oggi, invece, i protagonisti del Sistema sono ancora esclusi da “ogni livello decisionale” e mancano forme di consultazione con gli enti locali. Sono trattati come “meri esecutori”, “gestori”, e perciò isolati e costretti alla rassegnazione. Lasciati a operare con le proprie forze, da vent’anni. Altro che “pacchia”.

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