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“Una casa per i rifugiati”: vent’anni di storia di Naga Har

A Milano dal 2001, il centro per richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura è un luogo di socializzazione e condivisione, oltre che uno sportello di servizio legale. Aperto dal visionario medico Italo Siena, negli anni è diventato “un luogo dove riposarsi e ripartire”. Le storie di chi lo ha attraversato

© Naga

Il rifugiato è prima di tutto una persona che ha perso la sua casa, non un individuo che ha bisogno di cure. Vent’anni di Naga Har si fondano su questo approccio. Il centro per richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura, a Milano dal 2001 offre supporto legale per la richiesta d’asilo, corsi di italiano e attività musicali e di socializzazione.

Har, costola del più vecchio Naga, nasce con l’idea di aprire un luogo di condivisione e accoglienza. Ma bisogna tornare al 1987 quando il medico Italo Siena, definito dai suoi amici e volontari “illuminante”, “visionario”, “trascinante”, fonda il Naga, che tuttora offre servizi sanitari gratuiti agli immigrati senza permesso di soggiorno in Via Zamenhof. Come racconta Pinuccia Silicati, una delle volontarie storiche di Har e fondatrice della scuola di italiano, “Italo si rese conto che i pazienti visitati mostravano spesso segni di tortura”. Rifiutando l’approccio basato sulla medicalizzazione del trauma, il Naga Har viene concepito come luogo di socializzazione: “L’idea alla base era che i rifugiati avessero bisogno di una casa e di ricreare una dimensione familiare”, prosegue Pinuccia.

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Era in atto un cambiamento: se negli anni Novanta la maggioranza dei richiedenti asilo veniva dai regimi di Romania, Albania ed ex Iugoslavia, dai primi anni 2000 le persone in fuga da situazioni di conflitto cominciano a crescere. Col nuovo millennio i profughi africani e asiatici superano quelli europei. A Iran, Iraq, Afghanistan ed Etiopia, costantemente presenti nelle liste di provenienza, si aggiungono ora molti Paesi africani come Togo, Nigeria, Ghana, Sierra Leone.

In tutti questi anni, l’attività principale del Naga Har è sempre stata la raccolta delle storie dei richiedenti asilo da portare in commissione territoriale. Per ottenere l’asilo, nel racconto si deve dimostrare, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, che la persona è perseguitata “per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”. La storia deve contenere riferimenti a tutti gli avvenimenti, con date e dettagli su persecuzioni, maltrattamenti e torture. Un lavoro doloroso, che implica l’instaurazione di una relazione con gli ospiti per fare in modo che riescano a raccontare le atrocità vissute. “Ma oltre alla raccolta della storia -spiega Cesara Montoli, una delle fondatrici del Naga Har- si è sempre trattato di relazionarsi con i richiedenti asilo a 360 gradi, anche aiutandoli nella ricerca del lavoro e di un luogo dove vivere”.

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Per l’ex ospite Massoud Mohamad, “in una parola, Naga Har è famiglia”. Giornalista curdo dalla doppia nazionalità siriana e libanese, Massoud è stato perseguitato per le sue idee politiche da Hezbollah e dal regime di Assad. Nel 2015 tenta di ottenere l’asilo in Svezia, dove risiedono alcuni parenti, ma è costretto dal Regolamento di Dublino a richiederlo in Italia, primo Paese di ingresso in Unione europea. Dopo sei mesi in un centro di accoglienza nel quale non ha mai ricevuto assistenza legale né gli è stato permesso di fare richiesta di asilo, Massoud è riuscito a rendere pubbliche le sue vicende, anche con l’aiuto dei volontari di Har, ottenendo infine la protezione internazionale.

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Dalla nascita del centro 20 anni fa una data spartiacque è il 2011, quando il numero di richiedenti asilo esplode con l’inizio della guerra in Siria e delle primavere arabe. Molti dei migranti subsahariani che prima si stabilivano nel Nord Africa sono costretti a continuare il loro viaggio a causa dell’instabilità dell’area e delle violenze subite. Da una media di circa 17mila l’anno nel primo decennio del 2000, dal 2011 le domande d’asilo in Italia aumentano, fino ad arrivare al picco di 160mila solo nel 2017.

Naga Har, parallelamente, si adatta. “La vecchia sede di via Grigna ormai era troppo piccola”, racconta Pinuccia, che abitava nello stesso condominio e che a due settimane dall’apertura del centro era già stata ingaggiata da Italo Siena come insegnante della neonata scuola di italiano. Nel 2013 il centro si trasferisce quindi nella più grande sede di via San Colombano, alle porte di Corsico. Come ricorda Cesara, “oltre a luogo intimo di socializzazione e condivisione, Har diventa sempre di più un grande sportello di servizio legale”.

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A dettare questa trasformazione sono in primis le condizioni esterne: il numero crescente di richiedenti e l’alto tasso di dinieghi rendono prioritarie le questioni legali. In un panorama globale di costante aumento di guerre e povertà, anche i fattori climatici occupano ormai un posto di primo piano. Ma la loro rilevanza, testimoniata anche dal permesso di soggiorno per “calamità naturali” introdotto dal decreto-legge 130/2020, sottolinea l’inadeguatezza della distinzione tra migrante economico e rifugiato e la necessità di una riforma del sistema.

“Le condizioni materiali dei migranti sono peggiorate e si deve pensare più ai problemi pratici che alla socializzazione”, racconta Pinuccia, che definisce il corso di italiano una “scuola di pronto soccorso” perché più che imparare la grammatica l’obiettivo è riuscire a districarsi nei problemi quotidiani. E ancor di più da quando è scoppiata la pandemia. Se il Naga Har ha sempre posto al centro la relazione, oggi la sede di via San Colombano è spoglia: divani, TV, tè caldo, che costituivano l’anima del posto, sono stati temporaneamente eliminati per limitare i rischi di contagio.

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Ma per chi ricorda Har nei tempi pre-pandemici, ne parla come di un “luogo dove riposarsi e ripartire”, come afferma Dogan Ackali, curdo turco che dopo nove anni di peripezie ha finalmente ottenuto la protezione umanitaria. Oggi lavora come mediatore culturale alla Questura di Milano, lo stesso luogo dove si era presentato per anni nella speranza di ottenere i documenti. A dicembre 2020, ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, “Amore Mesopotamico”, edita da The Freak. Racconta: “Fin dal mio arrivo ho iniziato a scrivere poesie in italiano, Pinuccia me le correggeva, con lei ho seguito il corso e ottenuto il mio attestato di lingua”.

Prima di raggiungere una situazione stabile, Dogan ha lavorato per anni come lavapiatti, addetto alla sicurezza, kebabbaro, operatore di centri di accoglienza, ed è vissuto per strada, in un centro di accoglienza straordinaria, poi in uno Sprar e come ospite da conoscenti e amici. E questo solo a partire dall’arrivo nel nostro Paese: le storie dei richiedenti asilo sono delle vere e proprie odissee. Come scrive lo psicologo statunitense Renos K. Papadopoulos, di cui Naga Har sposa a pieno la visione, quella del rifugiato è in primis “la lotta per riconquistare la propria casa”.

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