Crisi climatica / Reportage
Il lato oscuro del boom del gas che gli Usa esportano in Europa
Il presidente Biden si è impegnato a fornire all’Ue 15 miliardi di metri cubi di Gnl in più entro l’inizio del 2023. Reportage dal Texas e dalla Louisiana dove si concentrano pozzi e terminal per l’export. Le comunità pagano il prezzo più alto
Per comprendere quanto l’industria fossile permei la società texana è utile una visita al National museum of natural science di Houston. Al quarto piano dell’edificio, nel cuore nevralgico del distretto dei musei e tra le attrazioni più visitate del Texas, si trova la Wiess energy hall: un’intera ala dedicata all’importanza dei combustibili fossili nella produzione di energia. Va da sé che gli sponsor siano le stesse multinazionali che dominano downtown e il business district, con contributi che vanno dai diecimila a dieci milioni di dollari. La mostra permanente è interattiva, con l’obiettivo di fare presa sul pubblico più giovane e ipotecare così il sostegno futuro delle nuove generazioni. Qui il carbone viene definito “vecchio re”, il gas diventa “energia più pulita” e il fracking “una rivoluzione non-convenzionale”.
Il Texas ha fondato gran parte della propria ricchezza economica sull’industria dei combustibili fossili. Nel 2021 è stato il più grande produttore di petrolio (43%) e gas (25%) degli Stati Uniti, motivo per cui la capitale Houston è soprannominata energy city. Il centro della città è un tempio votato all’industria fossile dove i grattacieli prendono il nome delle oil majors, come la TotalEnergies Tower in cui hanno sede i principali nomi del business fossile a stelle e strisce: ExxonMobil, Chevron, Kinder Morgan. Di recente vi hanno aperto i loro uffici anche gli “astri nascenti” del gas “naturale” liquefatto (Gnl): Cheniere Energy, Freeport LNG e Tellurian, solo per citarne alcuni.
Osservare la realtà texana e l’impatto dell’industria fossile sul suo territorio e i suoi abitanti è particolarmente utile alla luce delle conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina su quello che permette alle società contemporanee di funzionare: la produzione di energia da fonti fossili, con ripercussioni su tutte le filiere. Sono state stravolte le relazioni di potere economico per come avevamo imparato a conoscerle. Per rompere la dipendenza energetica da Mosca, i governi hanno scelto consapevolmente di forgiarne di nuove, percorrendo fedelmente i binari tracciati dalle multinazionali energetiche. Costruendo relazioni “tossiche” con Stati non meno autoritari della Russia o caratterizzati da forte instabilità socio-politica. In altri casi, Paesi dove la violenza assume connotati sistemici, soprattutto sul piano economico e sociale, come gli Stati Uniti.
Proprio Washington ha scelto di erigersi a paladino della sicurezza energetica europea, garantendo maggiori quantità di gas naturale liquefatto verso l’Europa. Il 25 marzo 2022, a conclusione dell’incontro tra il presidente Joe Biden e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, è stata creata la Us-Ue energy security task force. In questa maniera gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire entro la fine del 2022-inizio 2023 15 miliardi di metri cubi di gas in più rispetto agli accordi precedenti.
“Hanno prosciugato un’area vastissima di zone umide per costruire il terminal, è impressionante. La scuola è stata costretta a vendere i propri terreni a Sasol (multinazionale sudafricana che nel 2013 ha avviato un impianto petrolchimico, ndr), mentre il centro ricreativo non è più in uso” – Roishetta Ozane
A monte della fase di liquefazione, il gas statunitense viene estratto prevalentemente in Texas, nelle aree di Eagle Ford Shale e del Permian Basin. Viene prodotto attraverso l’utilizzo di pratiche ultra-invasive come il fracking o la trivellazione orizzontale, con procedure che richiedono grandi quantità di acqua, perforazioni che aumentano il rischio di dissesto idrogeologico e prevedono l’uso di sostanze chimiche. Durante il processo di produzione si fa ampio uso del flaring, la combustione in torcia del gas in eccesso -prevalentemente metano- derivante dall’estrazione del petrolio. Si stima che, fra il 2020 e il 2050, l’estrazione e l’utilizzo di tutte le riserve di petrolio e gas del Permian Basin possa produrre l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2: una vera e propria bomba climatica.
Tra Texas e Louisiana, lungo i bordi delle strade si possono scorgere decine di pozzi estrattivi in disuso e altrettanti ancora operativi, spesso in prossimità di santuari naturali per decine di specie animali tipiche delle zone umide. È proprio al confine tra i due Stati che si trova la più alta concentrazione di terminal per l’export di Gnl degli Stati Uniti: Sabine Pass (della Cheniere Energy), Cameron LNG (Sempra), Calcasieu Pass (Venture Global) e Freeport LNG dell’omonima società. È da questi impianti che arriva in Europa quasi tutto il Gnl statunitense. Altri dodici sono in fase di costruzione o ne hanno fatto richiesta presso la Federal energy regulatory commission, che rilascia i permessi dopo aver proceduto alle valutazioni di impatto ambientale e sociale.
L’Italia si colloca al tredicesimo posto globale per import di gas dagli Usa. Secondo i dati del governo di Washington (aggiornati a ottobre 2022) dai terminal della costa del Golfo sono partite 27 delle 32 navi gassiere che hanno raggiunto nell’ultimo anno i rigassificatori italiani, soprattutto quello onshore di Panigaglia (La Spezia) e l’Offshore LNG Toscana (Livorno), entrambi controllati da Snam. Nel 2018 la società ha acquisito, insieme ad altre società, il 66% di Desfa, suo corrispettivo greco, e di conseguenza il terminal per l’import di Revithoussa. Nel primo quadrimestre del 2022 le navi gassiere provenienti dagli Usa e approdate in Grecia sono state 21, a fronte delle nove nello stesso periodo del 2021.
Posto alla fine del canale artificiale di Sabine, Texas, il terminal di Cheniere è il più grande degli Stati Uniti. “Le tre torce per il flaring sono quasi sempre in funzione e si possono vedere da chilometri di distanza”, racconta John Beard del Port Arthur community action network. Quindi non c’è solo il flaring del Permian Basin, perché questo processo rappresenta una fase cruciale della liquefazione del gas.
Nel 2020 l’uragano Laura ha colpito duramente Port Arthur, causando ingenti danni anche a Sabine Pass, rimasto fermo per due settimane. Oltre il danno, la beffa: l’industria fossile è la principale responsabile della crisi climatica in corso, ma rischia di essere messa in ginocchio proprio dai fenomeni a essa collegati, essendo gli uragani sempre più frequenti e più violenti, come conferma John Allaire. La sua casa si trova a poche decine di metri dal terminal di Commonwealth LNG, in fase di costruzione: “Fino agli anni Novanta avevamo in media un uragano di categoria cinque ogni decennio -spiega-. Ora invece sono la normalità”.
A Lake Charles, Louisiana, procedono spediti i lavori per la realizzazione di Driftwood LNG, di Tellurian, come spiega Roishetta Ozane di Healthy Gulf: “Hanno prosciugato un’area vastissima di zone umide per costruire il terminal, è impressionante”. La donna si occupa di sensibilizzare le comunità sulla crisi climatica, anche da un punto di vista sociale, poiché qui colpisce soprattutto la comunità afrodiscendente. “La scuola è stata costretta a vendere i propri terreni a Sasol (multinazionale sudafricana che nel 2013 ha avviato un impianto petrolchimico, ndr), mentre il centro ricreativo non è più in uso -racconta-. La società, ora proprietaria, non ha realizzato i lavori di riparazione dopo l’ultimo uragano”. In quest’area, delle 600 famiglie originarie ne sono rimaste circa 60.
“Dico alle banche come Intesa di venire a vedere che cosa vuol dire lo sfruttamento del gas nel mio territorio, perché con i loro finanziamenti stanno firmando la nostra condanna a morte” – Melanie Oldham
Infine c’è Freeport LNG, il secondo impianto per l’export di gas naturale liquefatto degli Usa. A giugno 2022, un’esplosione ha compromesso il funzionamento del terminal, ancora fermo e al centro di indagini delle autorità competenti. All’origine dell’incidente c’è anche l’errore umano, derivante da turni di lavoro più lunghi a causa del crescente business del Gnl. “The dark side of the boom”, parafrasando i Pink Floyd. Tra uragani e incidenti, queste infrastrutture rischiano di essere spesso e volentieri ferme. C’è ben poco di sicurezza energetica.
La finanza gioca un ruolo rilevante. Fiuta un trend sul mercato e cerca di farlo diventare dominante, con l’obiettivo di trarne il massimo vantaggio attraverso gli interessi sui prestiti erogati e la cedola derivante dagli investimenti nelle multinazionali del fossile. Anche la finanza italiana, guidata da Intesa Sanpaolo, fa la sua parte. Gli impegni per il clima e l’ambiente presi dal gruppo torinese risultano così deboli da dare luce verde al finanziamento dei terminal di Gnl. La prima banca italiana ha finanziato quelli di Sabine Pass e Freeport e ha concesso negli ultimi cinque anni 1,8 miliardi di dollari a tutte le società che gestiscono i terminal Gnl sulla Costa del Golfo e ne stanno pianificando l’espansione. Melanie Oldham, attivista di Citizens for clean air non ha dubbi: “Dico alle banche come Intesa di venire a vedere che cosa vuol dire lo sfruttamento del gas nel mio territorio, perché con i loro finanziamenti stanno firmando la nostra condanna a morte”.
Lo spazio “Fossil free” è curato dalla Ong ReCommon. Un appuntamento ulteriore -oltre alle news su altreconomia.it– per approfondire i temi della mancata transizione ecologica e degli interessi in gioco
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