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Crisi climatica / Approfondimento

“Eni, Unicredit e Intesa Sanpaolo guidano l’espansione fossile in Africa”

Attiviste ghanesi protestano contro il progetto Eacop © 350.org, via Flickr

Oltre 200 società stanno avviando nuovi progetti per l’estrazione e il trasporto di gas e petrolio nel continente, contrariamente agli impegni di decarbonizzazione. In prima fila la francese TotalEnergie e l’italiana Eni. A essere interessati non sono solo i tradizionali Paesi esportatori ma anche quelli di “frontiera”. Il ruolo della finanza

“I combustibili fossili sono alla base della crisi climatica da cui l’Africa è colpita più di qualsiasi altra area del mondo. Eppure 200 compagnie nel settore del gas, del petrolio e del carbone stanno riempiendo il continente con progetti del tutto incompatibili con gli obiettivi climatici di Parigi”. A lanciare l’allarme è Omar Elmawi, coordinatore della campagna Stop Eacop, in occasione della presentazione alla Cop27 di Sharm el-Sheikh del rapporto “Chi finanzia l’espansione dell’industria fossile in Africa?”. Un dettagliato documento che mostra, numeri alla mano, in che modo le grandi aziende dell’oil&gas stanno condannando l’Africa alla dipendenza dai combustibili fossili.

“In 48 Stati su 55 le compagnie petrolifere, del gas e del carbone stanno esplorando o realizzando nuovi giacimenti, costruendo nuove infrastrutture come oleodotti o terminali di gas naturale liquefatto (Gnl), o stanno sviluppando nuove centrali elettriche a carbone. Questi enormi progetti imprigioneranno i Paesi africani in un percorso energetico obsoleto e ad alto contenuto di carbonio”, si legge nella prefazione del rapporto che è stato curato dall’organizzazione tedesca Urgewald, Stop Eacop, Oilwatch Africa, l’italiana ReCommon e altre 33 Ong africane.

Dal 2017 a oggi sono state autorizzate nuove esplorazioni per giacimenti di petrolio e gas su una superficie di oltre 886mila chilometri quadrati (un’are più grande di Francia e Italia sommate tra loro). Parallelamente sono aumentati anche gli investimenti per la ricerca in questo ambito, passati da 3,4 miliardi di dollari nel 2020 a 5,1 miliardi nel 2022. “Ogni dollaro speso in nuove esplorazioni va in direzione contraria rispetto alla roadmap fissata dall’Agenzia internazionale per l’energia del 2021 per mantenere l’aumento delle temperature medie globali al di sotto di 1,5 gradi centigradi a fine secolo. Le istituzioni finanziarie devono abbandonare i clienti che sono ancora alla ricerca di quelle nuove risorse fossili che non possiamo permetterci di bruciare”, afferma Heffa Schuecking, direttrice di Urgewald. Secondo le stime contenute nel report le multinazionali fossili prese in esame si stanno preparando ad aggiungere almeno 15,8 miliardi di barili equivalenti al loro portfolio africano entro il 2030: “L’estrazione e la combustione di queste risorse rilascerebbero in atmosfera otto gigatonnellate di CO2 equivalenti. Più del doppio delle emissioni annuali dei Paesi dell’Unione europea”.

A guidare la classifica è la francese TotalEnergies che già oggi realizza il 25% della propria produzione totale di idrocarburi in Africa e punta ad aggiungere altri 2,27 miliardi di barili equivalenti. “L’estrazione e la combustione di queste risorse aggiuntive sarebbe pari alla quantità di gas serra emesse da tutta la Francia in tre anni”, sottolinea il rapporto. Al secondo posto tra le compagnie più attive nella ricerca e nello sfruttamento di nuovi giacimenti nel continente c’è l’italiana Eni, seguita dall’azienda di Stato algerina Sonatrach.

L’organizzazione ReCommon dedica particolare attenzione al ruolo della multinazionale fossile italiana, che dall’Africa ricava circa il 59% della propria produzione globale. “L’aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022, farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all’anno nel nostro Paese”, spiegano i ricercatori di ReCommon. La società è attiva in 14 Paesi africani tra cui Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, ma la sua presenza è in fortissima crescita anche in Angola e Mozambico. Nel primo Paese, dal 2018 a oggi ha effettuato numerose scoperte, arrivando a formare un consorzio con la BP, denominato Azule Energy, che dovrebbe produrre 200mila barili di petrolio da riserve stimate per un totale di due miliardi di barili. Entro il 2026, inoltre, in Angola si arriverà a produrre sei miliardi di metri cubi di gas l’anno. In Mozambico, invece, Eni è attiva con il progetto Coral South e sta spingendo per la realizzazione di Rovuma LNG per la costruzione di un impianto su terraferma per la lavorazione e l’export del gas proveniente da 24 pozzi sottomarini: un investimento dal valore stimato di 30 miliardi di dollari. Il tutto in una regione dove dal 2017 è in corso un’insurrezione armata che ha causato oltre quattromila vittime e 800mila sfollati.

Alla ricerca e allo sfruttamento di nuovi giacimenti si accompagna la costruzione di nuove infrastrutture fossili, fondamentali per la trasformazione e il trasporto di gas e petrolio. Tra questi figurano l’East african crude oil pipeline (Eacop) dal costo stimato di cinque miliardi di dollari e un’aspettativa di vita di circa venti. Sul tavolo ci sono anche importanti investimenti per lo sviluppo di nuovi terminali di gas fossile liquefatto con una capacità complessiva di oltre 87 milioni di tonnellate all’anno. “La dipendenza europea dai combustibili fossili è uno dei principali fattori alla base dei nuovi progetti di gas liquefatto in Africa. La corsa al petrolio e al gas africano non ha nulla a che vedere con l’aumento dell’accesso all’energia per gli africani”, afferma Anabela Lemos, direttrice di Justiça Ambiental.

Tutte queste opere devastanti sarebbero difficilmente realizzabili senza il sostegno finanziario di fondi e banche private. A luglio 2022, oltre 5mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa, per un ammontare di 109 miliardi di dollari. Ben 12 miliardi fanno capo al solo fondo statunitense BlackRock, che a Eni “dedica” 958 milioni del suo ricco portafoglio. Tra gli istituti di credito sono ancora due soggetti Nordamericani a dominare: Citigroup (5,6 miliardi) e JPMorgan Chase (cinque miliardi), seguiti dalla francese BNP Paribas.

Ma la finanza privata italiana non sta a guardare, piazzandosi al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica sono presenti Unicredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente africano. “Mentre in casa nostra si propongono come enti di prossimità, di vicinanza ai territori e sostenibilità, le nostre principali banche alimentano altrove un business fossile che, in modo particolare nel continente africano, oltre a provocare devastazione ambientale è fonte di conflitti e instabilità politica, economica e sociale”, spiega Daniela Finamore, campaigner finanza e clima di ReCommon.

Il rapporto evidenzia poi come lo sviluppo di questi nuovi progetti riguardi anche i cosiddetti frontier countries, ovvero quei Paesi dove la produzione di gas e petrolio è minima se non totalmente assente. Uno dei 18 “Stati di frontiera” indicati nel report è la Namibia “che avrebbe il potenziale per diventare un precursore nello sviluppo di energie rinnovabili ma che rischia invece di essere risucchiato in un vortice di idrocarburi”, avvertono gli autori del rapporto. All’inizio del 2022, infatti, TotalEnergies e Shell hanno annunciato la scoperta di importanti giacimenti sottomarini di petrolio e gas nell’Orange basin davanti alle coste del Paese. Il nuovo “tesoro” fossile però si trova a grandissima profondità (tra i 1.500 e il 2.900 metri) e questo rende particolarmente complesse e pericolose le attività. “Più profondo è il giacimento, più alto è il rischio di incidenti e più difficile sarà contenere eventuali fuoriuscite. Qui e in altre parti dell’Africa assistiamo a progetti di estrazione sempre più rischiosi ed estremi”, commenta Nils Bartsch di Urgewald.

Oltre ad avere un enorme impatto ambientale lo sfruttamento dei combustibili fossili determina conflitti, destabilizzazione e inquinamento nel continente. Il Ghana si trova sull’orlo di una crisi finanziaria a causa dei contratti take-or-pay che impongono al governo di pagare centinaia di milioni di dollari all’anno per i giacimenti non sfruttati. In Mozambico i progetti per lo sfruttamento del gas naturale liquefatto hanno esacerbato i conflitti nel Nord del Paese. Mentre l’estrazione del petrolio nel Delta del Niger ha reso la regione una delle più inquinate del mondo, compromettendo la salute della popolazione. “La corsa al petrolio e al gas africano a cui stiamo assistendo non ha nulla a che fare con l’accesso all’energia per la popolazione locale. I profitti finiranno in larga parte nelle tasche delle élite globali mentre le comunità locali dovranno fare i conti con inquinamento, impoverimento e violazioni dei diritti umani”, sottolinea il rapporto.

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