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I dati sull’accoglienza in Italia, tra programmazione mancata e un “sistema unico” mai nato
Ad agosto in Italia sono “accolte” quasi 133mila persone, per la maggioranza nei centri prefettizi. Il sistema diffuso, e sulla carta ordinario, pesa ancora poco. Un confronto con gli anni scorsi smonta l’emergenza e mostra i nodi veri: dalla non programmazione al definanziamento, fino allo squilibrio provinciale tra Cas e Sai
Al 15 agosto di quest’anno le persone in accoglienza in Italia sono 132.796: 95.436 nei Centri di accoglienza straordinaria che fanno capo alle prefetture, 34.761 nei centri diffusi del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) e 2.599 negli hotspot. Tanti? Pochi? Spia di un’emergenza imprevedibile? Un confronto con gli anni scorsi può aiutare a orientarsi, tenendo sempre la stessa fonte, cioè il ministero dell’Interno, lo stesso che per conto del governo lamenta una situazione “scoppiata” tra le mani, impossibile da programmare e quindi non gestibile per le vie ordinarie, tanto da dichiarare lo stato di emergenza.
Facciamo un salto indietro alla fine del 2016, quando gli sbarchi furono oltre 180mila. Le persone in accoglienza in Italia allora erano 176.257, il 32,7% in più di oggi. La stragrande maggioranza, proprio come oggi, era nelle strutture temporanee emergenziali (137mila), seguita a distanza dall’accoglienza diffusa e teoricamente strutturale dell’allora Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) con 23mila posti, dai centri di prima accoglienza (15mila circa) e dagli hotspot (un migliaio). A fine agosto 2017, anno in cui gli sbarchi alla fine sfiorarono quota 120mila, erano 173.783, di cui nei soli Cas 158.207. Un terzo in più di oggi.
Un anno dopo, il 31 agosto 2018, erano scesi a 155.619. Attenzione: quell’anno, anche a seguito degli accordi del 2017 tra Italia e Libia e delle forniture garantite a Tripoli per intercettare e respingere i naufraghi con missioni bilaterali di supporto (farina Minniti-Gentiloni), gli sbarchi crolleranno a 23.370.
Ed è proprio in quell’anno che per decreto (il cosiddetto “Decreto Salvini”, 113/2018) il Governo Conte I smonta il già gracile e incompiuto sistema di accoglienza, pubblicando schemi di capitolato dei Cas che premiano le strutture di grandi dimensioni, riducendo gli standard di accoglienza e mortificando l’operato del Terzo settore. Per non parlare del forte impulso, già in atto da qualche tempo, alla prassi “svuota centri” rappresentata dalle revoche delle misure di accoglienza da parte delle prefetture. È bene infatti ricordare che tra 2016 e 2019, come ricostruito da un’inchiesta di Altreconomia, almeno 100mila tra richiedenti asilo e beneficiari di protezione si sono visti cancellare le condizioni materiali di accoglienza, finendo espulsi dai centri, a discrezione delle singole prefetture e senza che venisse tenuto in minima considerazione alcun principio di gradualità.
L’anno che ha fatto registrare il dato più basso di sbarchi dell’ultima decade è il 2019: 11.471. A metà agosto di quattro anni fa le persone in accoglienza erano 102.402, di cui 77.128 nei Cas e 25.132 nell’ormai ex Sprar, svuotato della sua natura originaria e rinominato in Siproimi. “Perché immaginare di costruire un sistema di accoglienza per soggetti ritenuti non graditi dalle istituzioni?”, è il ragionamento non detto.
Ecco perché al 15 agosto 2020, anno di leggera ripresa degli sbarchi (34.200 circa), le persone nei Cas, nel Siproimi e negli hotspot non superano quota 85mila. La metà rispetto al 2016. Crollano i posti nei centri prefettizi (da 77mila del 2019 a 60mila del 2020) così come quelli nel Siproimi (da 25mila a 23mila).
Ma si è riusciti a far di peggio, riducendo il sistema al lumicino dei 76.902 “immigrati in accoglienza sul territorio”, come li indica il Viminale, del 15 agosto 2021 (anno che registrerà 67.477 sbarchi). Nei centri prefettizi vengono infatti dichiarate 51.128 persone presenti, quasi un terzo di quante erano accolte nel dicembre 2017. Nel circuito del Siproimi c’è una flebile ripresa che però non oltrepassa quota 25mila posti.
È una sorta di “età di mezzo” (siamo a cavallo dei Governi Conte II e Draghi). Nonostante il positivo intervento della legge 173/2020 che ripristina la logica dello Sprar, denominandolo Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), i due esecutivi che precedono l’attuale non riescono a (o non vogliono) frenare la diminuzione dei posti. Si fa finta di non vedere che il sistema di accoglienza è nei fatti sottostimato e che da un momento all’altro può dunque implodere rispetto alle necessità. I capitolati dei Cas vengono di poco corretti ma non in maniera adeguata, e continua a non essere elaborato e tanto meno attuato alcun piano di progressivo assorbimento e riconversione dei Cas (emergenza) nel Sai (ordinario). Il Sistema di accoglienza e integrazione torna debolmente a crescere ma in modo modesto. Perché non è lì che si punta: a occupare l’agenda sono ancora gli accordi con la Libia, che vengono infatti rinnovati, e la direzione politica non cambia rispetto a quella precedente, è solo meno “urlata”.
È in questo quadro che arriviamo all’anno scorso, quello dei 105mila sbarchi, con le persone in accoglienza che a metà agosto 2022 sono 95.893, di cui 64.117 nei Cas e 31mila circa nei centri Sai.
Pian piano quella quota è cresciuta fino ai citati 132.796 “accolti” del 15 agosto 2023. Non si tratta, come visto, di un inedito picco ma di un già vissuto trascinarsi di difetti strutturali. Uno su tutti: il Sai, la fase di accoglienza concepita come ordinaria, non riesce ad andare oltre il 30% del numero complessivo dei posti disponibili.
“Se immaginiamo che tra il 20 e il 30% della popolazione presente nei centri rapidamente li abbandona e lascia l’Italia per andare in altri Paesi dell’Unione europea, l’impatto generale degli arrivi e delle presenze è quanto mai modesto -osserva Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste e tra i più esperti conoscitori del sistema di accoglienza del nostro Paese. Nulla giustifica l’ordinario e diffuso allarmismo”. “La popolazione italiana nel solo 2022 è diminuita di 179mila unità, un numero pari a più di tre anni di arrivi (2022, 2021, 2020) -fa notare ancora Schiavone-. Ma di che cosa stiamo parlando?”.
A questa lettura se ne aggiunge un’altra che riguarda la disomogeneità territoriale dell’accoglienza su scala provinciale. Il ministero dell’Interno rende infatti pubblici ogni 15 giorni i dati aggiornati sulle “presenze di migranti in accoglienza” distinguendoli però solo su base regionale. Così gli squilibri del sistema non emergono nel dettaglio.
Altreconomia ha ottenuto dal Viminale i dati suddivisi per Provincia al 30 giugno 2023, appena prima che scoppiasse l’ultima “emergenza accoglienza”, quando le persone in accoglienza erano 118.883 di cui 3.682 negli hotspot (Lampedusa su tutti), 80.126 nei Cas e 35.075 nei centri Sai. Il carattere che emerge è la sproporzione. Vale tanto per la distribuzione dei posti del Sai quanto per il “collegamento” tra il sistema emergenziale Cas e l’accoglienza diffusa.
Schiavone fa qualche esempio pratico. “In alcune Regioni e province le presenze nel Sai sono bassissime, specie se rapportate alla popolazione residente. Veneto, Toscana, la stessa Lombardia. Il divario Nord-Sud è critico. La peggiore si conferma in ogni caso il Friuli-Venezia Giulia, dove peraltro il ministero segnala 63 posti in provincia di Udine senza tenere conto che il progetto Sai che fa capo al Comune di Udine ha chiuso a fine dicembre del 2022. È palese la carenza forte di posti al Nord dove ci sarebbero le maggiori possibilità di integrazione socio-lavorativa”.
Di fronte a questi dati sorge un interrogativo che il presidente dell’Ics di Trieste riassume così: “A che cosa serve un Sistema di accoglienza integrazione, che ora con la legge 50/2023 è destinato ai soli beneficiari di protezione, così squilibrato, sia per aree geografiche sia in relazione al sistema dei Cas? Trasferiamo i richiedenti asilo appena diventano rifugiati da Nord a Sud per trovare lavoro? Appare evidente che il sistema come è oggi configurato, se si intende mantenere l’irrazionale scelta di avervi sottratto l’accoglienza dei richiedenti asilo, non ha alcun senso e andrebbe interamente riconfigurato con drastiche chiusure di progetti Sai nelle aree interne, specie al Sud, che erano importantissimi in una logica normativa che prevede l’accoglienza diffusa dei richiedenti asilo ma che perdono senso in un nuovo sistema che attribuisce al Sai la sola funzione di sostenere l’integrazione socio-economica dei rifugiati”.
A riprova del fatto che la vera emergenza in Italia non sono i numeri quanto la non programmazione ministeriale sull’accoglienza, c’è anche la risposta che il capo della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo (Francesco Zito) diede al nostro Luca Rondi a inizio gennaio 2023. Alla richiesta di aver copia del “Piano nazionale di accoglienza elaborato dal Ministero dell’Interno”, il Viminale glissò sostenendo che “i trasferimenti dei migranti avvengono in base a quote di volta in volta stabilite tra le diverse province, anche in base ai posti che si rendono disponibili sul territorio”. Come dire: il piano è non avere un piano.
Chiude il cerchio la cesura netta che c’è tra i posti emergenziali nei Cas e il Sai. “Facciamo l’esempio di Piacenza -riflette Schiavone-. A fine giugno c’erano 505 posti Cas e 34 posti Sai. Se ad esempio ogni anno devo trasferire 200 ex richiedenti asilo divenuti beneficiari di protezione dai Cas di Piacenza al Sai di quella provincia, come si fa? È evidente che le persone verranno trasferite da una delle province a maggior dinamicità economica magari ad Avellino o Cosenza dove ci sono rispettivamente 900 e 1.100 posti SAI. Questo non-sistema produce nello stesso tempo sradicamento delle persone dai percorsi di primo inserimento sociale e totale sperpero di denaro pubblico. A guardare fino in fondo il non-sistema non produce neppure alcuna integrazione sociale, magari con grande lentezza e spreco di energie”.
La progressiva riduzione dei Cas a parcheggi dove non verrà insegnato neppure l’italiano -come prevede la legge 50/2023 che ha eliminato anche l’orientamento legale e il supporto psicologico- farà il resto. “Il processo è in atto da tempo ma tende ad accelerare sempre di più -dice Schiavone allargando le braccia-. In questo modo anche i sei mesi di accoglienza Sai rischiano di rivelarsi pressoché inutili se non sono un completamento di un percorso di integrazione già avviato. Ma in questo non-sistema il beneficiario di protezione che accede al Sai parte da quasi zero”. Verso una nuova, prevedibile, “emergenza”.
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