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Diritti / Intervista

Giusi Palomba. La trama alternativa

Classe 1981, Giusi Palomba è originaria della provincia di Napoli e vive a Glasgow, in Scozia. Traduce narrativa e saggistica, scrive per diverse riviste e si occupa di organizzazione comunitaria

Una donna vittima di un abuso decide di non rivolgersi alla polizia, ma di intraprendere un percorso collettivo di giustizia trasformativa. Un’occasione, per l’intera comunità, per riflettere sulle radici culturali della violenza di genere

Tratto da Altreconomia 264 — Novembre 2023

Fin dal suo arrivo a Barcellona nel 2015, Giusi trova in Bernat, protagonista della vita culturale e politica della città, la chiave di accesso a quel mondo sotterraneo catalano che dà un sapore diverso al suo essere una “migrante economica” (così si definisce) che lavora in un pub. È quell’uomo “amato da tutti” nel quartiere a invitarla a prendere parte all’attivismo fervente che permea la città diventando, piano piano, il suo migliore amico e confidente, un mediatore prezioso. Fino al giorno in cui l’uomo viene accusato di violenza sessuale: le certezze di Giusi si sgretolano, tutto vacilla.

Eppure Mar, la donna che subisce l’abuso, decide di non denunciarlo, ma di intraprendere un processo trasformativo, lontano dalle aule dei tribunali, che coinvolge l’intera comunità. Da questa vicenda nascono le riflessioni che la scrittrice Giusi Palomba ha condensato nel libro “La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere”, pubblicato da minimum fax. Alla narrazione personale, intima, di quanto vissuto sulla propria pelle segue una ricostruzione documentata dei riferimenti teorici che propongono un femminismo capace di ispirarsi a pratiche alternative.

Giusi, partiamo dalla decisione di Mar di non rivolgersi alla polizia ma alla comunità. Perché sceglie di farlo?
GP Principalmente perché ne ha la possibilità. Non è una donna più coraggiosa di altre ma semplicemente la sua comunità di appartenenza ha costruito un’alternativa concreta rispetto al sistema penale, riflettendo sulla possibilità che la violenza si potesse riprodurre anche al suo interno. C’era grande consapevolezza, per esempio, del fatto che anche nei luoghi sicuri possano verificarsi abusi e su come una violenza, una molestia, non riguardi solo chi la subisce e chi la esercita ma la comunità intera perché è figlia di una certa cultura, di dinamiche precise che vanno messe in discussione.

Come si è strutturato il percorso di cui parli nel libro?
GP Sono stati creati dei gruppi specifici di supporto per Mar e Bernat, ma non voglio dare troppo peso ai singoli step affrontati da loro. Mi interessa dare spazio al susseguirsi delle emozioni anche contrastanti che questo approccio ha generato in me e nelle persone con cui ho condiviso questa esperienza e al modo in cui sono state affrontate. Un esempio su tutte, la legittima rabbia generata dalla notizia e dal ruolo di migliore amica di chi agisce la violenza e l’idea che sia possibile elaborarla collettivamente.

Per più di due anni tante persone si sono spese per questo processo collettivo di responsabilizzazione. Con quali effetti?
GP Il successo e il fallimento sono relativi in un percorso simile. Ci sono stati momenti bui perché, per quanto quella fosse una comunità “pronta” a un simile percorso, era la prima volta che si attivava qualcosa di simile. Ma è anche difficile individuare una “chiusura”: ancora oggi, a distanza di anni, è importante il confronto sulle potenzialità e sulle criticità di questo e degli altri possibili percorsi trasformativi. Per esempio la difficoltà di prendersi cura di ogni persona coinvolta, anche della comunità stessa. Eppure, in una situazione differente, col ricorso al sistema penale, questo spazio di elaborazione non sarebbe esistito, né per Mar, né per Bernat, né per le comunità di appartenenza.

“Spesso la donna non può uscire dal ruolo di vittima: questo è l’opposto di quanto ci si propone di fare in percorsi trasformativi. La persona che subisce una violenza non è condannata a essere per sempre un soggetto passivo, può rifiutare quel ruolo e diventare agente di cambiamento”

Insisti molto anche sul “ruolo” che viene assegnato a Mar in questo percorso.
GP Sì, perché è centrale. Spesso la donna non può uscire dal ruolo di vittima: questo è l’opposto di quanto ci si propone di fare in percorsi trasformativi. La persona che subisce una violenza non è condannata a essere per sempre un soggetto passivo, può rifiutare quel ruolo e diventare agente di cambiamento riprendendo il controllo della situazione. Questo passaggio ci aiuta a problematizzare l’idea per cui giustizia e punizione, quindi anche il ricorso al carcere, debbano sempre coincidere.

Quindi, secondo te, la strada della giustizia penale è sempre “sbagliata”?
GP Assolutamente no. Le riflessioni che propongo nel libro non devono portare a un giudizio negativo su chi si rivolge alla polizia perché per molte donne è l’unica strada percorribile. In molti contesti purtroppo non è pensabile proporre un percorso di giustizia trasformativa. Ma la storia di Mar aiuta a ribadire che insistere sul tema della denuncia come unica via di “salvezza” è rischioso: sia per chi non ha protezione adeguata, sia per chi in quella strada non trova soddisfazione piena.

A proposito di punizione. Nel saggio critichi apertamente il carcere come soluzione al problema. Perché?
GP Per due motivi: perché credo nel rispetto dei diritti umani di qualunque persona (a prescindere dal reato che ha commesso), spesso negati negli istituti penitenziari, e soprattutto perché le persone che escono dal carcere in molti casi sono ancora più rabbiose e rancorose. Ed è faticoso assistere alla normalizzazione di un certo linguaggio: dalla castrazione chimica alla pena di morte.

Toni distanti da quelli proposti da te. Un intero capitolo si intitola “Il lavoro degli uomini, il lavoro con gli uomini”. Perché è difficile parlarne?
GP Per parte del movimento femminista non è giusto occuparsi di mascolinità. E spesso, nuovamente per una dinamica malsana dei media, si sente parlare di singoli uomini “illuminati” che prendono consapevolezza della loro posizione e non emergono i percorsi di gruppo che certi uomini portano avanti in cui l’assunto fondamentale è che la violenza maschile è sistemica e ha radici culturali. Questo significa che deriva anche dall’accumulazione di potere e prestigio e che a volte serve una comunità per comprenderlo.

In altri termini, un uomo non è violento di per sé ma tutti potenzialmente possono esserlo?
GP Gli uomini crescono sempre di più distaccati dalla comunità di riferimento, spesso non hanno ruoli di cura, devono obbligatoriamente avere successo, non piangere, essere indipendenti. E la capacità di esercitare empatia con il tempo diventa sempre più labile, lasciando spazio al dispiegarsi della violenza: spesso chi la esercita non è più capace di percepire le emozioni altrui. E di questa cultura che produciamo siamo responsabili come società.

In Italia secondo i dati forniti dal ministero della Salute, il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di abuso sono esercitate da partner, attuali e passati, parenti o amici

Nel libro critichi anche il femminismo neoliberista accusandolo di replicare proprio quelle dinamiche che stai descrivendo legate alla mascolinità. Ci aiuti a capire perché?
GP La donna che conquista il potere degli uomini e si ritrova in certe posizioni replica la dinamica del potere, del prestigio e il distacco dalla comunità e non va a intaccare quell’organizzazione verticistica. Le condizioni per una vita degna vanno garantite per tutte e non solo per chi rompe il soffitto di cristallo. Se no ci saranno sempre altre costrette a ripulire i frammenti.

Sei d’accordo con il celebrare una giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne?
GP Dipende da come viene celebrata. In queste occasioni si rischia di veicolare una certa narrazione che non permette di fare molti passi avanti: la donna vittima e senza un ruolo nella storia. È un’idea riprodotta ossessivamente dai media e dalle istituzioni, a partire dalle immagini che si utilizzano: figure rannicchiate in un angolo, con un occhio nero, passive, in posizioni sempre remissive. Non viene mai veicolata l’idea che una donna possa riprendersi dal trauma e ottenere giustizia autodeterminandosi, decidendo da sé il percorso che le è più consono.

“Non viene mai veicolata l’idea che una donna possa riprendersi dal trauma e ottenere giustizia autodeterminandosi, decidendo da sé il percorso che le è più consono”

Nel libro apri una critica verso la pratica dei call out, puoi spiegare meglio?
GP Il call out, ovvero il richiamo pubblico per rendere visibili comportamenti problematici o violenza, può essere una pratica molto utile, ma mi interessa aprire riflessioni anche sui rischi che si porta dietro. Uno è di sicuro quello che la legittima rabbia e l’indignazione possono diventare funzionali a un approccio punitivo, alimentando un meccanismo in cui lo Stato finge di intervenire sul tema della violenza di genere con azioni esclusivamente repressive. E poi spesso non si tiene conto delle conseguenze materiali dell’esposizione pubblica, ad esempio quando si parla di dare in pasto dati sensibili alle piattaforme commerciali, in vicende che in molti casi coinvolgono anche dei minori.

Che cosa speri che generi il tuo libro?
GP Io racconto una storia, il mio non è un manuale di giustizia trasformativa. Vorrei che aiutasse a riflettere sulle pratiche alternative al sistema penale, sul fatto che l’intervento dello Stato non rappresenta per tutti un sinonimo di cura, protezione, rieducazione. E su che effetti ha la cultura punitivista sulle battaglie femministe.

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