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Crisi climatica / Attualità

“Eni sapeva” degli impatti delle fonti fossili sul clima sin dagli anni 70

Una documentata ricerca di Greenpeace e ReCommon svela pubblicazioni ufficiali in cui già cinquant’anni fa il colosso evidenziava i rischi dell’accumulo di carbonio in atmosfera e della connessa crisi climatica. Ma la multinazionale ha continuato (e continua) a investire sull’estrazione di idrocarburi. Il ruolo dell’organizzazione Ipieca

“A causa dell’aumento dell’uso di oli minerali l’anidride carbonica in atmosfera, secondo quanto riportato in un recente documento del Segretario generale delle Nazioni Unite, è aumentata a livello globale di circa il 10% nell’ultimo secolo; attorno all’anno 2000 potrebbe raggiungere il 25% con ‘catastrofiche’ conseguenze per il clima”.

Questa frase è contenuta in uno studio pubblicato nel 1970, quando iniziava a diffondersi anche nell’opinione pubblica una crescente attenzione per i problemi legati all’inquinamento. A mettere a fuoco quell’allarme, però, non furono ricercatori o scienziati, e nemmeno attivisti o associazioni ambientaliste, ma Eni.

Nel 1969 la società -all’epoca controllata interamente dallo Stato- aveva affidato a un proprio centro studi (l’Istituto per gli studi sullo sviluppo economico e il progresso tecnico, Isvet) il compito di realizzare un’indagine tecnico-economica per valutare i danni causati dall’inquinamento e i costi economici collegati. Un’affermazione inequivocabile, contenuta in una pubblicazione ufficiale commissionata dalla società e realizzata da un centro studi dell’Eni stessa.

A riportarla alla luce è stata la ricerca “Eni sapeva” condotta da Greenpeace e ReCommon realizzata grazie ad approfondimenti svolti nel corso di alcuni mesi nelle biblioteche e negli archivi della stessa società o di istituzioni scientifiche come il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Lo studio è basato su recenti analisi simili che hanno indagato gli archivi e le pubblicazioni di compagnie come la francese TotalEnergies. Comprende inoltre i contributi di storici della scienza come Ben Franta, ricercatore in climate litigation presso l’Oxford sustainable law programme, tra i maggiori esperti del tema a livello mondiale, e Christophe Bonneuil, direttore di ricerca presso il più grande ente pubblico di ricerca francese, il Centre national de la recherche scientifique (Cnrs).

Il passaggio dello studio di Isvet del 1970 non è un caso isolato. “In diverse sue pubblicazioni risalenti agli anni Settanta e Ottanta, il colosso italiano metteva in guardia sui possibili impatti distruttivi sul clima del Pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili –denunciano le due organizzazioni-. Eppure, nonostante questi ammonimenti, l’azienda ha proseguito e continua ancora oggi a investire principalmente sull’estrazione e lo sfruttamento di petrolio e gas”.

I casi citati nel report di Greenpeace e ReCommon sono diversi, come due studi pubblicati dalla società Tecneco (sempre appartenente a Eni) rispettivamente nel 1973 e nel 1978. Nel secondo (intitolato “Ambiente e fonti di energia esauribili e rinnovabili”) gli autori si chiedevano quali fossero i limiti che l’ambiente poneva alla produzione e al consumo di energia in costante aumento: “È auspicabile, tecnicamente fattibile ed economicamente valido ridurre il tasso di crescita del consumo energetico, senza diminuire il prodotto nazionale lordo -si legge nel documento del 1978-. Sarebbe inoltre necessario implementare un programma intensivo di sviluppo energetico da fonti rinnovabili ed estensive come l’energia solare, geotermica ed eolica”.

Lo studio condotto da Tecneco continuava poi concentrandosi sulle emissioni di CO2, evidenziando come queste avessero già raggiunto nel 1970 una concentrazione di 320 parti per milione (ppm) in crescita del 10% nel corso dei 110 anni precedenti: “Si presume che con l’aumento del consumo di combustibili fossili, iniziato con la rivoluzione industriale, la concentrazione di CO2 raggiungerà le 375-400 ppm. Ipotizzando che il 35-45% della CO2 emessa rimanga in atmosfera e che il resto venga rimosso dal ciclo bio-geochimico, questo aumento è considerato da alcuni scienziati un possibile problema a lungo termine, soprattutto perché potrebbe alterare il bilancio termico dell’atmosfera, portando a cambiamenti climatici con gravi conseguenze per la biosfera”.

Inoltre, sin dalla prima metà degli anni Settanta Eni ha fatto parte dell’Ipieca (International petroleum industry environmental conservation association), un’organizzazione fondata nel 1974 da diverse compagnie petrolifere internazionali che, secondo recenti studi, a partire dagli anni Ottanta avrebbe consentito al gigante petrolifero statunitense Exxon di coordinare “una campagna internazionale per contestare la scienza del clima e indebolire le politiche internazionali sul clima”.

“A partire dal 1974 questa associazione ha assunto il ruolo di una diplomazia petrolifera internazionale di fronte alle emergenti normative transnazionali, ad esempio sulle fuoriuscite di petrolio, sull’inquinamento atmosferico e, negli anni Ottanta, sul riscaldamento globale -ha spiegato lo storico dell’ambiente Christophe Bonneuil-. Sebbene non si sia mai definita un gruppo di pressione, dal 1988 al 1994 è diventata chiaramente un canale attraverso il quale le compagnie petrolifere hanno condiviso informazioni e strategie relative al lavoro delle Nazioni Unite sulla strada verso il Vertice della terra di Rio del 1992 e i dettagli dei negoziati sulla Convenzione sui cambiamenti climatici”.

Ipieca ha iniziato a occuparsi di riscaldamento globale attorno al 1984 e nel 1988 ha dato vita al “Working group on global climate change” i cui compiti erano -tra gli altri- quelli di documentare lo stato della scienza dei cambiamenti climatici indotti dall’effetto serra ed elaborare strategie di risposta vantaggiose per l’industria. Sebbene non fosse presente all’interno di questo gruppo di lavoro, “nella sua rivista Ecos, Eni ha dichiarato di essere stata coinvolta nei primi anni Novanta nel sostegno agli studi e alle azioni sul cambiamento climatico condotte dall’Ipieca -si legge nel report di Greenpeace e ReCommon-. Attività che si rifanno a una delle strategie già descritte da Bonneuil in precedenza, ovvero mettere in evidenza le presunte incertezze della scienza climatica promuovendo ulteriori ricerche per ritardare l’azione necessaria per porre fine alla combustione dei combustibili fossili”.

“La nostra indagine dimostra come Eni possa essere aggiunta al lungo elenco di compagnie fossili che, come è emerso da numerose inchieste internazionali condotte negli ultimi anni, erano consapevoli almeno dai primi anni Settanta dell’effetto destabilizzante che lo sfruttamento di carbone, gas e petrolio esercita sugli equilibri climatici globali, a causa delle emissioni di gas serra -conclude Felice Moramarco, che ha coordinato la ricerca per Greenpeace Italia e ReCommon-. Se ci troviamo oggi nel pieno di una crisi climatica che minaccia le vite di tutte e tutti noi, la responsabilità ricade principalmente su aziende come Eni, che hanno continuato per decenni a sfruttare le fonti fossili, ignorando gli allarmanti e crescenti avvertimenti provenienti dalla comunità scientifica globale”.

Lo scorso 9 maggio, come abbiamo raccontato su Altreconomia, Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadine e cittadini italiani hanno presentato una causa civile nei confronti della società amministrata da Claudio Descalzi per i danni subiti e futuri, di natura patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui la compagnia avrebbe significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendo consapevole degli impatti sul clima delle proprie attività. La “Giusta causa” punta a costringere Eni a rivedere la sua strategia industriale e a ridurre le sue emissioni del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come raccomandato dalla comunità scientifica internazionale per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

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