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Cultura e scienza / Intervista

Elvira Mujčić. Non basta la “buona condotta” per salvare il Kosovo dalla spirale di violenza

Elvira Mujčić è nata nel 1980 nella ex Jugoslavia: dopo aver vissuto in Bosnia ed Erzegovina e Croazia è emigrata in Italia a causa della guerra degli anni Novanta

In un romanzo profetico e amaro uscito quest’anno la scrittrice ripercorre le tensioni seguite all’elezione di un sindaco serbo in una piccola città del Paese balcanico indipendente dal 2008: una bussola per comprendere quanto sta accadendo ed è precipitato nelle ultime settimane. E per mettere a fuoco i “limiti” delle rivendicazioni

“O si vive, o si ricorda e racconta”. Sulla complessa situazione del Kosovo, Elvira Mujčić, scrittrice nata nella ex Jugoslavia ed emigrata in Italia a seguito della guerra nei Balcani, affida a Ludmilla, una delle protagoniste del suo libro “La buona condotta”, il difficile compito di tracciare la via per uscire da un’impasse fatta di continue tensioni. Le ultime in ordine cronologico sono nate a fine aprile 2023 a seguito della tornata elettorale svoltasi in quattro Comuni del Nord del Paese che hanno visto vincere sindaci di origine albanese, con appena il 3% di affluenza a causa del boicottaggio dei cittadini di origine serba. E leggere il nuovo libro di Mujčić pubblicato a inizio 2023 da Crocetti editore (18 euro, 240 pagine) sembra d’immergersi in una profezia. All’indomani dell’indipendenza del Paese nel 2008, Miroslav, uomo di origine serbe, vince le elezioni a Sumor, una piccola enclave al confine con la Serbia. La scarsa legittimazione -i voti a suo favore si contano sulle dita di una mano- viene indebolita dall’arrivo di Nebojša, l’uomo inviato da Belgrado per “marcare il territorio”, creando scompiglio e soffiando sulle braci di un conflitto mai del tutto risolto. 

Elvira il tuo è un romanzo profetico. Che cosa pensi di quello che sta succedendo da fine aprile in Kosovo?
EM Sembra che io sia una terribile Cassandra ma purtroppo non ci vogliono grandi doti da indovino. Ci sono delle differenze rispetto al mio racconto ma la sostanza non cambia: tutto nasce dalla difficile convivenza dei cittadini di uno Stato costruito artificialmente senza tener conto del contesto. E la narrazione che accompagna questi eventi va sempre alla ricerca di chi ha ragione e chi no. Lo vediamo anche in questi giorni: i serbi rivendicano il fatto di non riconoscere quelle elezioni, gli albanesi, consapevoli che senza una guida amministrativa non si può andare avanti, insistono sulla legittimità delle votazioni. Il dato di fatto è che i sindaci sono stati eletti da pochissime persone. Ha senso chiedersi chi ha meno torto? Credo di no.

Forse è necessario raccogliere l’invito fatto da Ludmilla nel tuo libro, considerata “pazza” dai suoi compaesani, che si domanda se “la prescrizione del passato sia necessaria”?
EM Ludmilla, con la sua psicosi, incarna la memoria del Paese: ricorda tutte le date, gli avvenimenti e inchioda tutti al passato, ai loro ricordi. Un “carico” di cui i personaggi non sanno bene che cosa farsene: lei è bollata come matta proprio perché è scomoda. La prescrizione però è un desiderio infantile di ricominciare da zero, quasi un’amnesia che comporta il cancellare le responsabilità individuali rispetto a ciò che è successo. Questo oggi succede in diversi Paesi dei Balcani dove non si riconoscono le responsabilità e tutto è appiattito. A Belgrado in Serbia ogni due giorni compare un murales che invoca il generale Ratko Mladić, lo stesso succede in Bosnia ed Erzegovina, dove i criminali vengono chiamati eroi. Oltre ai crimini riconosciuti dalla comunità internazionale -penso al massacro di Srebrenica- ci sono eventi più “piccoli” che continuano però a non essere visti come problematici. Non può esserci solo un’archiviazione del passato: il cambiamento passa da qui, a mio avviso. La società dovrebbe favorire l’apertura di spazi di dialogo che accelerano questo processo e invece siamo ancora alla fase delle recriminazioni e della negazione. Con degli elementi grotteschi. 

Del tipo?
EM I soldati italiani della delegazione Onu feriti durante gli scontri di fine maggio verranno sostituiti dai turchi. Sono loro che andranno a “garantire” la pace. E pensare che la narrazione nazionalista serba si basa proprio sull’invasione ottomana. Questo è grottesco ma apre in me una grande riflessione sul tema della memoria: da un lato continuo a credere che sia importante ma sono sempre più convinta che non sia una maestra; dall’altro so che è un fardello per molti che blocca e non permette di andare avanti. Come si fa a trasformarla davvero in qualcosa di costruttivo? Questa domanda tocca tutti noi da vicino. 

A proposito di memoria, nel libro c’è anche Miroslav, il sindaco di origine serba eletto a Sumor, che vorrebbe lavorare come un sarto che ricuce i vecchi strappi del passato ma alla fine, paradossalmente, lui stesso ne crea di nuovi. Che cosa rappresenta il suo personaggio?
EM Per Miroslav mi sono ispirata inizialmente alla figura di Oliver Ivanovic, un politico serbo del Kosovo ucciso per le sue idee nel gennaio 2018. E poi di altri che, con il loro operato, provano a lavorare per un’idea di bene comune. Nel caso di Miroslav, però, il suo essere buono si avvicina più alla codardia che al coraggio: lavora per accontentare tutti, non è capace a dire no quando deve. E la sua idea di mondo migliore si scontra con la cruda realtà quando viene messa in pratica. A quel punto, diventa lui stesso come gli altri da cui vuole distinguersi e arriva al punto di desiderare la morte dell’oppositore politico. Non è un eroe, quindi, ma un uomo che fa i conti con i suoi limiti e capisce che non può farcela da solo. Da tutto questo però si salva, perché non smette di farsi domande.

E questo è vincente?
EM Io credo di sì. Ciascuno dei personaggi continua ad arrovellarsi sul senso delle sue azioni. Non è importante che quello che facciamo sia all’altezza dei propri ideali, perché non credo più alle grandi rivoluzioni. Le piccole “salvezze” nascono dai dubbi individuali che aiutano a spostare leggermente il corso della storia. E Miroslav, così sicuro di sé all’inizio, così lontano dai nazionalisti serbi che lo osservano di cattivo occhio dal bancone dell’osteria, capisce che per cambiare le cose deve prima comprenderle e non combatterle a priori. 

Questa iniziale incapacità di ascolto di Miroslav sembra dettata dalla necessità di essere “civile” a qualunque costo e non “barbaro”. Ma i compaesani gli fanno notare che “la libertà è uscire dalla finzione che rende civili”. Ci aiuti a capire meglio?
EM Nasce tutto da una domanda. Può una persona essere davvero libera senza creare danno alla collettività? La frase “la mia libertà finisce dove inizia la tua” a mio avviso vuol dire ben poco. Miroslav accontenta tutti ma alla fine genera problemi e quando cerca di risolverli, sempre “civilmente”, fa ancora più danni. E allora il punto non è tanto il tema della civiltà ma credo sia il coltivare quella parte di noi che riconosce, all’interno di un contesto becero, ciò che è da salvaguardare a qualunque costo. E quindi questo richiede dei “no” detti con fermezza: non può andare sempre tutto bene.

Nel libro c’è chi rimpiange l’epoca del comunismo “morbido come una spugnetta”; chi critica la gente che in quell’epoca “sacrificava la vita aspettando un Santo Graal che non arrivava”; chi invece si rifugia nel nazionalismo, mitizzato come soluzione a tutti i problemi. Sono le ideologie il problema?
EM A me non interessa tutto ciò che è astratto delle ideologie ma come queste entrano nel vivere quotidiano. Il nazionalismo nel libro emerge nella relazione tra le persone, nella difficoltà di stare con l’altro. Dalla moglie alla sorella considerata matta, dal compaesano all’esiliato che ritorna in paese perché è là dove manca la costruzione di una collettività armoniosa, dove si creano costantemente delle piccole guerriglie, che attecchiscono le ideologie, soprattutto conservative. Ma queste sono solo il prodotto di quello che siamo noi, delle paure ataviche che ci attanagliano. E per questo motivo è il lavoro su noi stessi che è centrale: uno scrittore diceva che è facile riconoscere le grandi colpe, difficile perdonarsi i dettagli. 

Oltre al titolo nel testo compare due volte la locuzione “buona condotta” ma è riferita sia a Miroslav sia a Nebojša, presunti antagonisti. Ma allora qual è davvero quella “buona”?
EM Inizialmente era riferita a Mirsolav, colui che si comporta bene. Poi ho preso spunto per la figura di Nebojša da un politico del Kosovo uscito per buona condotta dal carcere. E allora si è capovolto tutto: le stesse parole assumono un significato diverso in base a chi sono riferite. Se cambiano i punti di riferimento si modifica anche l’idea di bene e male che ne scaturisce. Mi piaceva giocare su questa ambiguità, e i personaggi si interrogano molto su questo. Perché per alcuni è “buona condotta” aver preso parte alla guerra, come pensano i cittadini di Sumor in riferimento a Nebojša. Per Miroslav invece non è così. Ancora. Ludmilla è l’unica che in un contesto di guerra ha un desiderio d’amore: la sua psicosi, nata nell’ambito di una dimensione affettiva, viene vista come una condotta sbagliata. Da “pazzi”. 

Ma qual è la buona condotta che porta a dei “risultati”?
EM Sembra che il contesto alla fine “mangi” Miroslav. Colui che arriva da fuori e vuole portare un cambiamento resta inghiottito dalle dinamiche nazionaliste. Ma in realtà non è così: un uomo si piega, riconosce i propri limiti, e lavora “dal dentro” per gettare un seme che potrebbe durare molto a lungo. 

A proposito del “riconoscere i limiti”. Nada, moglie di Miroslav, racconta la sua ostinazione nel seminare piante che non possono crescere. Decide però, nell’anno in cui il marito diventa sindaco, di smettere gettando i semi solo di ciò che può davvero sopravvivere. Quel giardino rappresenta il Kosovo?
EM Può essere il Kosovo ma possono essere tanti aspetti della vita di ognuno di noi. Nada si sopravvaluta perché vuole esportare piante che crescono in climi soleggiati per piantarle in luoghi freddi. A un certo punto si chiede perché non le bastino delle banalissime rose: fiori che crescono e danno soddisfazione. C’è una mia doppia riflessione su questo. La prima è rifuggire l’etnocentrismo nelle “soluzioni” politiche. Ci illudiamo che se i cantoni funzionano in Svizzera vanno bene anche in Bosnia ed Erzegovina. Serve invece leggere la complessità dei territori. La seconda, più individuale, ha a che fare con la reazione di Nada quando prende la decisione di fermarsi: non è disperata perché alla fine anche lei sta meglio, liberata da quel desiderio impossibile che la attanaglia. Forse la soluzione per il Kosovo arriverà davvero quando ognuno accetterà dei limiti: magari i Comuni in mano ai serbi e l’indipendenza riconosciuta però per davvero. Ludmilla dice che “o si vive, o si ricorda o si racconta”. Per vivere bisogna fare qualcosa nel presente lasciando sedimentare il passato. Sperando in un futuro migliore.

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