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Esteri / Intervista

Marina Kovačević. Il colore nelle carceri di Belgrado

Marina Kovačević, antropologa, ha fondato il Centro per la riabilitazione attraverso l’immaginazione, un’organizzazione non governativa che si occupa di promuovere attività culturali in diverse carceri serbe © Igor Coko

L’antropologa ha dato vita dieci anni fa a una Ong che organizza corsi di scrittura e teatro nei penitenziari serbi, coinvolgendo i detenuti nella realizzazione di murales che cambiano i muri grigi. Per dar loro un orizzonte

Tratto da Altreconomia 258 — Aprile 2023

A volte la distanza tra l’oggetto di una ricerca scientifica e la tua vita quotidiana è enorme. Lo pensavo anche io, quando ho iniziato a lavorare nelle carceri della Serbia. Cosa potevo avere mai a che fare io, ragazza di provincia, arrivata nella grande Belgrado per i miei studi di antropologia, con assassini e ladri? E invece, giorno dopo giorno, ho capito quanto quel confine tra il giorno e la notte sia molto più sottile di quanto credessi”.

Marina Kovačević, antropologa, racconta piano e con chiarezza, come chi è abituata a farsi ascoltare. Ha fondato circa dieci anni fa il Centar za rehabilitaciju imaginacijom (Centro per la riabilitazione attraverso l’immaginazione), un’organizzazione non governativa che si occupa di riabilitazione sociale in Serbia della quale scrive e dirige i progetti.

“In questi anni ho attraversato tutti i penitenziari del Paese: femminili e maschili, minorili e per adulti. Ci sono entrata per la mia tesi e non sono più uscita. Mi sono confrontata con un mondo senza grammatica, ma con un universo di storie. Mi sono messa in gioco: donna in un mondo dove bisogna ‘far l’uomo’ per sopravvivere. E l’idea che anche solo uno tra i detenuti che ho incontrato non abbia avuto paura di parlare di sé stesso e del mondo attraverso l’arte, mostrando le sue fragilità, mi dice che ne valeva la pena”.

Marina è un’infaticabile agitatrice culturale della galassia penitenziaria serba: progetti di poesia, teatro, arte rivolti a gruppi sociali minoritari, persone socialmente disadattate, carcerati, persone con disturbi psichiatrici. Ma è con i murales e le carceri che Marina ha raccolto risultati e riconoscimenti internazionali. In un Paese dove il sistema penitenziario è molto particolare. Secondo un rapporto del Consiglio d’Europa pubblicato nel 2021, dopo un’ispezione generale delle strutture penitenziare, in Serbia si registra un numero significativo di denunce di tortura e altre forme di maltrattamento di persone detenute da parte di agenti di polizia: pestaggi a mani nude e con manganelli, elettroshock con cavi collegati alla batteria di un’auto, posizioni di stress durante gli interrogatori, violenze sessuali. Le accuse, secondo il Consiglio d’Europa, sono supportate da documenti credibili.

“In questi anni ho attraversato tutti i penitenziari del Paese: femminili e maschili, minorili e per adulti. Ci sono entrata per la mia tesi e non sono più uscita. Mi sono messa in gioco”

A questo livello di brutalità, si affianca un trend in grande crescita rispetto alla carcerazione: dal 2000 al 2022 il numero dei detenuti è passato da circa seimila a oltre diecimila, anche in relazione a un generale processo di inasprimento delle pene voluto dal presidente serbo Aleksandar Vučić per andare incontro alle pressioni dell’estrema destra. Secondo lo studio, che ha riguardato l’intero 2018 e il gennaio 2019, il tasso di incarcerazione è di 156,1 persone ogni 100mila abitanti, mentre per l’Europa è di 106,1. La Serbia è anche uno dei primi Paesi in termini di sovraffollamento carcerario, con 105,5 detenuti ogni 100 posti disponibili: con una presenza di 4,5 detenuti per cella rispetto alla media europea di 1,4 quello serbo è uno dei più affollati del continente.

Al sovraffollamento si aggiungono le violenze interne tra i detenuti. Secondo il rapporto del Consiglio d’Europa il tasso di mortalità all’interno dei penitenziari serbi è aumentato significativamente, passando da 32,4 a 51,5 persone ogni diecimila. Numeri che pongono il Paese in cima alla lista di quelli con il più alto tasso di mortalità nelle carceri.

Oltre alla pericolosità sociale di clan come la mafia di Zemun e dei gruppi legati al mondo ultras delle squadre di calcio di Belgrado, c’è tutto un sottobosco di piccoli delinquenti che in qualche modo -secondo quanto riferisce la stampa locale- devono “affiliarsi” ai gruppi principali una volta detenuti, anche per piccoli reati, finendo per non avere altra scelta se non un’escalation criminale per salvarsi la vita.

Sono 10mila le persone detenute nelle carceri serbe nel 2022. Un dato in crescita rispetto ai seimila del 2000 anche a seguito di un inasprimento delle pene voluto dal presidente Aleksandar Vučić

“Non ho avuto paura di confrontarmi con qualcosa più grande di me. Ho esposto le mie fragilità alle autorità serbe, per avere il permesso di lavorare in carcere, e ai detenuti. Non ho finto certezze che non avevo. A tutti ho detto ‘Proviamo?’. Ed è andata bene”, racconta Marina senza smettere mai di sorridere. Il Centro ha realizzato diversi progetti con i ristretti, tra cui lo spettacolo teatrale “Note dalla cella numero 12”, rappresentato diciassette volte nelle prigioni serbe e anche per il pubblico. “Non scorderò mai l’emozione mia e dei detenuti quando ho detto che potevamo andare a teatro, fuori dal carcere, a mostrare il nostro lavoro. Avevamo tutti le lacrime agli occhi: io perché mi ero fidata di loro, loro perché finalmente sentivano che qualcuno gli dava fiducia”. Il loro lavoro è arrivato persino a New York, alla Conferenza internazionale sulle attività culturali in carcere, e poi proiettato ovunque negli Stati Uniti. E ancora progetti di scrittura partecipativa con i minori detenuti e le persone nel penitenziario psichiatrico, progetti di auto racconto con le detenute del femminile. Ma è soprattutto con i murales che Marina lavora adesso.

“Ho pensato che uno dei drammi delle condizioni detentive è il rapporto con l’orizzonte. Quello della vita, perché non hai un’idea di futuro, e quello della quotidianità, perché i muri e il grigio ti rendono sempre più aggressivo -racconta-. Ho iniziato a coinvolgere artisti a Belgrado, per far dipingere loro all’esterno, su muri visibili dalle celle, quello che i detenuti chiedevano nei nostri laboratori. Poi ho portato all’interno quella voglia di colore: abbiamo iniziato a decorare le pareti dei penitenziari”.

“Questo percorso ha cambiato anche me: assisto a miracoli laici, ogni giorno. Non puoi restare la stessa quando vedi Djordje, un killer della mafia, che aiuta un detenuto autistico a fare il suo disegno”

Il progetto, che oggi coinvolge decine di detenute e detenuti, si è allargato e dai cortili interni si è esteso ai corridoi e, lentamente, alle celle. “Un disegno non risolve i problemi, ma è tornando a guardare anche la parte umana, fragile, allegra di tutti noi che le cose possono cambiare. Come nel teatro non diventiamo chi siamo realmente, ma chi potremmo essere, nella decorazione di uno spazio non abitiamo il luogo che vorremmo, ma umanizziamo quello in cui siamo e quindi anche il nostro sguardo -riprende Marina-. Ma al di là di tutto, fare una cosa bella, restituisce autostima. E solo in questi anni ho capito quanto questo sia importante per chi ha sbagliato, almeno quanto ho capito quanto tutti, davvero tutti, potremmo sbagliare”.

Marina racconta senza sosta, in un affollato caffè di Belgrado, conservando sempre un’attenzione stoica al racconto, come non sentisse il frastuono. “Questo percorso ha cambiato anche me: assisto a miracoli laici, ogni giorno. Non puoi restare la stessa quando vedi Djordje, un killer della mafia, che aiuta un detenuto autistico a fare il suo disegno, quando vedi un gruppo di donne che hanno ucciso il marito che provano, assieme a te, a elaborare la violenza subita e commessa: mi hanno tolto i pregiudizi uno a uno, con delicatezza, come se non volessero farmi male. Non bisogna raccontare verità edulcorate: i momenti difficili sono stati tanti, anche le pressioni, oltre a qualche giorno (e qualche notte) di paura. Ma ho preso più di quel che ho dato, solo questo voglio far capire. E portare fuori la normalità delle persone in carcere, e negli istituti penitenziari le fragilità della società fuori da quelle mura, per me ha dato un senso ai miei studi e alle mie passioni. Se non capiamo quanto sia facile sbagliare e ritrovarsi in carcere, non cambieremo mai non solo le prigioni, ma le società che producono detenuti”.

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