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Il ricordo di Srđan Aleksić vive a trent’anni dalla guerra in Bosnia

Una vista della città di Trebinje © Marcus Saul via Flickr (CC BY 2.0)

Il 27 gennaio 1993 a Trebinje, nella Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, Srđan Aleksić veniva ucciso per avere salvato un amico bosgnacco. Nell’area dove tornano a soffiare venti secessionisti, è un simbolo di chi rifiuta la guerra

Tratto da Altreconomia 246 — Marzo 2022

Il cimitero di Trebinje non ha nulla di speciale. Non è antico, non è monumentale. Molte tombe, troppe, riportano date legate agli anni Novanta, quasi sempre di persone che erano molto giovani. Trovare la tomba di Srđan Aleksić non è facile: è l’ultimo nome, su una lapide di marmo nero, con altri della sua famiglia. Giovane, troppo giovane. La data di morte recita 27 gennaio 1993. Aveva 27 anni. Non c’è una foto, sulla tomba, ma il volto di Srđan -suo malgrado- è diventato un’icona. Srđo, come lo chiamavano gli amici, era conosciuto nella cittadina di Trebinje: bello, attore giovane in una serie di produzioni locali. Sportivo, giocava a basket per far contento suo papà Rade -allenatore di una squadra locale- ma la passione era il nuoto che lo aveva portato a essere selezionato anche per le nazionali giovanili jugoslave. Studiava giurisprudenza con buoni risultati, ma era la recitazione che lo appassionava. 

Srđan era un figlio di quella Jugoslavia dove per decenni si era lavorato per creare un’identità collettiva, multipla e meticcia, dove ciascuno con la propria storia si sarebbe potuto sentire a casa. Negli anni Novanta, però, il processo politico e culturale portato avanti per un decennio da una generazione di dirigenti emersi dopo la morte del maresciallo Tito, nel 1980, inizia a dare i suoi frutti avvelenati. Giorno dopo giorno, provocazione dopo provocazione, il clima in Jugoslavia si incupisce ed emergono i fantasmi della guerra in uno stillicidio di dichiarazioni, minacce, promesse. Trebinje era una delle cittadine nel mezzo, quelle che non rientravano in nessuna delle rigide definizioni dei nazionalisti: serbo, croato, musulmano. A Trebinje c’erano tutti, da sempre. In maggioranza serbi ma le persone si erano iniziate a contare di colpo, come quando un incubo diventa realtà. Il vento soffiava forte, verso un’esplosione della Federazione jugoslava in singoli Stati etno-nazionali. Ed ecco che Trebinje vede lacerata la sua monotona quotidianità da un processo di identificazione: “A chi sei fedele tu?”. Alla tua vita, alla tua cittadinanza o al tuo “sangue”.

Tanti, troppi, cadono in questa trappola. I serbi di Bosnia, fomentati da Belgrado e da un gruppo di politici locali, spesso figure oscure solo fino a qualche giorno prima, iniziano a contarsi. E ad armarsi. Trebinje finisce per essere una cittadina a maggioranza serba che teme di trovarsi lontana dalla Serbia del futuro. Si formano le brigate del Vrs, l’Esercito della Repubblica Srpska (Vojska Republike Srpske), Srđan Aleksić deve arruolarsi perché per chi “disertava” la vita non era facile. 

I suoi coetanei lo ricordano come un ragazzo appassionato di musica e di cinema, ma a volte la vita ti travolge. Solo che qualcuno, anche quando c’è la bufera, tenta di restare se stesso. Ed ecco che un giorno, il 21 gennaio 1993, mentre la guerra già infuriava in Bosnia ed Erzegovina, Srđan Aleksić si trova con alcuni commilitoni in giro per la cittadina dove era nato e vissuto. Trebinje era stata la base logistica delle milizie serbo-bosniache che attaccarono la vicina Dubrovnik in Croazia, sulla costa, strategica per le operazioni militari. Il clima in città è pesantissimo per chi non è serbo, al punto che Trebinje era stata proclamata capitale della auto-proclamatasi Repubblica autonoma serba dell’Erzegovina.

Trebinje era una cittadina nel mezzo e non rientrava in nessuna rigida definizione dei nazionalisti. Da sempre c’erano tutti: serbi, croati, musulmani

Sono in cinque e, secondo quello che racconta chi lo conosceva, i suoi commilitoni guardavano a Srđo con sospetto. Non era abbastanza violento, non era abbastanza fanatico. E puntano decisi verso il mercato nella piazza della Libertà di Trebinje. Fermano le persone, chiedono i documenti. Se il nome è musulmano, sono guai. Una delle persone fermate è Alen Glavović che in quel momento non è più Alen, nato e cresciuto a Trebinje come tutti gli altri, ma un “musulmano”. Un nemico. E Alen è anche un amico di Srđo, sono cresciuti assieme, hanno inseguito lo stesso pallone per strada e sono andati agli stessi concerti, a guardare gli stessi film al cinema. Non è mai stato chiarito se fermare Alen fosse un caso o un modo per mettere alla prova la fedeltà di Srđo. Quello che sappiamo per certo, dai racconti dello stesso Glavović e di altri testimoni oculari, è che Alen viene aggredito con ferocia e che i paramilitari impongono a Srđo di partecipare al pestaggio. Solo che Srđo dice di no, che non toccherà Alen, che lo devono lasciar stare perché non ha fatto niente. Forse era quello che gli altri cercavano: il dubbio. Forse, invece, erano stupiti. Non lo sapremo mai. Ma iniziarono a picchiare Srđo con i calci dei fucili fino a fargli perdere i sensi, fino a mandarlo in coma. Srđo morirà in ospedale il 27 gennaio successivo.

Nella sua elegia funebre, il padre Rade disse: “Morto facendo il suo dovere”. Come si dice per tanti eroi di guerra, volutamente, perché Rade sempre questo ha sottolineato durante le numerose commemorazioni, che suo figlio ha fatto il suo dovere: è rimasto umano. E al suo fianco, ogni anno, c’è Alen (che riuscì a fuggire in Svezia, dove vive ancora oggi, con la moglie e i due figli), che non manca mai per ricordare Srđo. E Srđo lo ricordano in tanti, in modo trasversale. Perché, soprattutto con la foto che lo ritrae in divisa, Srđo è diventato un’icona. Prima in forma di stencil, che hanno iniziato a comparire sui muri delle strade in Croazia, in Serbia, in Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro, e poi proprio come campagna condivisa che ha portato a intitolare a lui strade ufficiali a Novi Sad, Pancevo e Belgrado, in Serbia, a Podgorica, a Sarajevo e in molti altri luoghi si è presentata la proposta di intitolargli una via. I suoi assassini vennero condannati solo a 28 mesi di prigione dalle autorità di quella Repubblica dei Serbi di Bosnia che è emersa dalla fine del conflitto. La guerra è stata Srđo e anche l’avvocato dei suoi assassini, che difese i suoi assistiti dichiarando che “Aleksic se l’era cercata, difendendo un balija”, come venivano chiamati con disprezzo i musulmani. 

Anche quest’anno il padre Rade ha invocato il 27 gennaio come giorno della memoria condivisa, dedicata a tutti coloro che rifiutano la logica della guerra e della violenza, mentre venti di secessione e minacce sono tornati a soffiare nella vita politica della Bosnia ed Erzegovina, alimentati ancora da quelle stesse classi dirigenti nazionaliste che si sono arricchite tra mille scandali e che hanno reso il Paese tra i più poveri e disastrati d’Europa. La memoria del gesto di Srđo non è stata sempre lineare perché in guerra anche la memoria è vittima e bottino allo stesso tempo. Subito dopo il conflitto, i nazionalisti serbi tentarono di riscrivere l’episodio, facendo passare Aleksić prima come un “eroe di guerra” caduto in battaglia, poi come un corrotto e sodale del nemico che con Alen Glavović al mercato ci era andato per vendere merce rubata.

Nell’elegia funebre e nelle numerose commemorazioni Rade, il padre di Srđo, ha ricordato che suo figlio è morto facendo il suo dovere: è rimasto umano 

Per fortuna il ricordo delle persone presenti all’accaduto ha protetto Srđo da questo tentativo di appropriazione indebita. Una memoria che, con una sorta di passaparola che ha superato i confini degli Stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, ha tenuto vivo il ricordo di Srđo che anno dopo anno è diventato sempre più noto, fino a ispirare un film e un documentario. Perché i conflitti si nutrono anche di narrazioni, in un senso e nell’altro.

Il 2022 è l’anno del trentennale della guerra in Bosnia ed Erzegovina e come accade troppo spesso la chiave di lettura sarà quella, consapevole o meno, di un malcelato orientalismo che si avvita nell’immaginario dei Balcani dal coltello facile, della “troppa storia per una regione così piccola”, del conflitto tra religioni. L’orrore dei fatti accaduti tra il 1992 e il 1995 nella ex Jugoslavia non può e non deve essere cancellato, ma va contestualizzato in logiche e dinamiche che sono molto meno “regionali” di quello che si racconta e che -come ovunque- si sono caratterizzate anche per storie e persone come Srđan Aleksić, capaci di dire no. 

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