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Diritti / Opinioni

L’Europa muore ancora a Sarajevo

La drammatica “rotta balcanica” evoca quella “guerra in casa” raccontata dal compianto Luca Rastello. La sua prospettiva ci riguarda. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 234 — Febbraio 2021
© Michele Lapini e Valerio Muscella

Campi profughi sovraffollati e a volte in fiamme, centinaia di persone in marcia senza meta nella neve e nel ghiaccio, accampamenti di fortuna ai margini dei boschi e poi le violenze inflitte dalle guardie di frontiera: sono sotto accusa, soprattutto, i gendarmi croati, rappresentanti in quei momenti dell’intera Unione europea. Le cronache in arrivo dalla cosiddetta “rotta balcanica” sono sconvolgenti. E tuttavia non sembrano turbare più di tanto i sonni dei cittadini europei e dei loro governanti. L’assuefazione all’orrore è in stato molto avanzato e ha i tratti ormai della patologia sociale collettiva; in aggiunta la pandemia ha messo a soqquadro gli equilibri personali, sociali e politici in tutto il continente, aggiungendo un’angosciante incertezza sul futuro a una crisi d’identità già conclamata.

L’Unione europea oscilla fra scatti d’orgoglio e di presa di coscienza, come le strategie (imperfette, ma reali) per una via d’uscita comune dall’emergenza Covid-19, e un nichilistico abbandono della sua vera ragion d’essere, ossia la tutela piena ed effettiva della dignità umana, cardine di ogni democrazia. I reportage più drammatici sulla rotta balcanica arrivano da luoghi come Bihać e Velika Kladuša: località periferiche, ai margini della geografia mentale del cittadino medio dell’Ue. Eppure sono luoghi e nomi che non paiono sconosciuti. Hanno un’eco familiare. E non è un caso. Sono luoghi di cui si parlava anche negli anni Novanta, quando la Bosnia faceva notizia per la guerra civile jugoslava ed era l’epicentro della cattiva coscienza europea e occidentale. Il piccolo Stato di montagna, la repubblica multinazionale della Federazione jugoslava, fu per qualche anno un crocevia della storia: nelle sue tragedie -fra Sarajevo, Mostar e Srebrenica- si condensava e riproponeva il peggio della storia europea del Novecento.

1.425 la durata in giorni dell’assedio di Sarajevo da parte delle milizie serbo-bosniache secessioniste tra il 5 aprile 1992 e il 29 febbraio 1996

Il nazionalismo armato tornava a distruggere, l’odio per l’altro era di nuovo una stella polare, e intanto la retorica democratica, o forse l’illusione di avere davvero costruito un mondo libero e civile, mostrava tutta la sua fragilità. A Sarajevo l’assedio durò quasi quattro anni, a Srebrenica fu compiuto un genocidio, Mostar fu spezzata da un muro invisibile (il “Bulevar”) a separare gli abitanti secondo criteri di appartenenza nazionale e religiosa: tutto nell’indifferenza o nell’impotenza dell’Europa e dell’Occidente. La Bosnia, in quei drammatici anni Novanta, fu il cimitero del sogno democratico e umanista coltivato dalla comunità internazionale.

Il compianto Luca Rastello (1961-2015) in un libro memorabile come “La guerra in casa” (Einaudi 1998, da poco ripubblicato) raccontò del suo incontro, da attivista della solidarietà, con la tragedia jugoslava. Nell’introduzione scriveva che non intendeva parlare della guerra ma “di quella guerra e noi, dell’incontro, quasi sempre fallimentare, fra chi è coinvolto e chi osserva, degli sguardi che da questa sponda si sono gettati sull’altra”. È una prospettiva che ci riguarda. Il rapporto dell’Europa con la Bosnia e la sua guerra fu allora un fallimento sotto vari punti di vista: la “pace” raggiunta nel 1995 non ha cancellato i nazionalismi, la ferita del genocidio di Srebrenica è ancora sanguinante, la dignità della persona umana non ha ripreso a regolare i rapporti fra gli Stati, come si vede oggi a Bihać e Velika Kladuša. La Bosnia è tornata a tormentare le nostre coscienze. L’Europa sta nuovamente morendo a Sarajevo.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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