Ambiente / Inchiesta
Ecco perché il successo del Grana Padano è un problema sanitario
Le deiezioni dei bovini che producono il latte poi trasformato nel formaggio Dop provocano emissioni di ammoniaca che nell’aria diventa particolato, cancerogeno. Se interrati, i liquami pregiudicano le falde. La nostra inchiesta
La corsa del Grana Padano è un problema: dal 1998, anno di attivazione della Denominazione di origine protetta (Dop), al 2023, l’aumento della produzione è stato del 66,87%. Solo nel 2023 il Consorzio ha registrato un più 4,84% rispetto al 2022, che si traduce in circa 1,3 milioni di quintali di latte in più “lavorati a Grana Padano” rispetto all’anno precedente. Più latte significa però impatto ambientale in aumento, in un contesto -quello della Pianura Padana- con forti problemi di qualità dell’aria, legati anche agli allevamenti di bovini (e di suini) presenti.
Eppure si tratta di un successo fragile, come sarebbe facile capire se lo osservassimo usando altre lenti, ad esempio quelle degli economisti ambientali. “Se misurassimo le esternalità negative correlate alle attività e non solo il beneficio economico, probabilmente il risultato non sarebbe così evidente”, spiega infatti ad Altreconomia Lara Aleluia Reis del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), tra gli autori di uno studio pubblicato a marzo 2024 da Science Direct. “Abbiamo calcolato che l’agricoltura può aumentare l’inquinamento locale fino a un quarto”, si legge nel paper, sulla base dei dati raccolti nei pressi degli allevamenti lombardi.
La ricerca -firmata anche da Jacopo Lunghi e Maurizio Malpede- offre “un’immersione profonda nell’ammoniaca e nel particolato in Lombardia”, perché alla fine il problema principale è la gestione delle emissioni degli allevamenti intensivi. “Nei primi anni Novanta, quando ho studiato Scienze dell’alimentazione -racconta Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia-, i professori spiegavano che una vacca di pianura, come ad esempio una Frisona, poteva produrre fino a trenta litri di latte al giorno, contro i 15 di varietà come la Grigio Alpina. Oggi, in media, le vacche nelle stalle lombarde arrivano a produrre 55 litri di latte al giorno. Questo significa ovviamente un maggior fabbisogno di nutrienti e una crescita nella produzione di deiezioni”.
Di Simine invita a pensare a una montagna di liquami che pesa 50 milioni di tonnellate. Sono quelli prodotti in un anno da bovini e suini allevati in Lombardia, pari a oltre dieci volte la quantità dei rifiuti solidi urbani dei cittadini della Regione, 4,6 milioni di tonnellate nel 2022 secondo l’ultimo rapporto Ispra. Il problema non è solo lo stoccaggio: le deiezioni comportano emissioni di ammoniaca, un gas incolore, tossico e dall’odore pungente che quando si lega agli ossidi di azoto (NO2) dà vita al particolato.
In Lombardia le emissioni annue di ammoniaca sono pari a 93mila tonnellate all’anno, “e dipendono quasi esclusivamente dagli allevamenti intensivi di bovini e suini”, spiega Damiano Di Simine
Gli ossidi di azoto sono quelli che escono dai tubi di scappamento delle auto, in particolare dai motori . Se riavvolgiamo il nastro di alcuni mesi, torniamo a febbraio 2024 e all’ennesima emergenza smog in tutta la Pianura Padana: “È come avere una coperta di lana sulla testa” che fa ristagnare l’aria, aveva spiegato Vanes Poluzzi, responsabile del Centro tematico regionale di Qualità dell’aria dell’Agenzia per l’ambiente dell’Emilia-Romagna. Quella coperta, o cappa, è il frutto della combinazione tra ammoniaca e NO2, in una zona densamente abitata e trafficata in cui durante l’inverno non ci sono venti che spazzano via gli inquinanti: la Pianura Padana è, di fatto, una camera a gas. In Lombardia le emissioni annue di ammoniaca sono pari a 93mila tonnellate all’anno, “e dipendono quasi esclusivamente dagli allevamenti intensivi di bovini e suini”, aggiunge Di Simine.
Il particolato fine, PM2.5 e PM10, è stato classificato nel 2013 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Airc) come cancerogeno di classe 1: fa parte, cioè, di quelle sostanze per le quali “ci sono forti evidenze di cancerogenicità”. È il tipo di esternalità di cui, spesso, chi fa impresa non tiene conto, scaricando quindi sulla collettività le spese, anche quelle sanitarie. Il problema è questo: nelle stalle della Lombardia si allevano oltre un quarto di tutti i bovini e la metà dei suini allevati in Italia a dicembre 2023, rispettivamente un milione e mezzo e quattro milioni e mezzo, secondo l’Istat.
E anche se la maggior parte degli allevamenti sono localizzati nelle aree meno densamente abitate della Regione, il problema riguarda milioni di persone, perché il particolato secondario nei mesi freddi staziona in atmosfera per molti giorni, diffondendosi anche a decine di chilometri dai punti di emissione: “Le aree dove si stima il maggior contributo relativo da fonti zootecniche all’inquinamento atmosferico misurato, nonostante la minore urbanizzazione, presentano un’elevata densità di popolazione”, spiega il paper di Aleluia Reis, Lunghi e Malpede. Quasi sette milioni di persone risiedono entro cinquanta chilometri dalle aree di maggior concentrazione di allevamenti e beneficerebbero di una riduzione delle concentrazioni di PM10. “Questi risultati evidenziano come il deterioramento stimato della qualità dell’aria possa interessare una parte significativa della popolazione, anziché limitarsi a Comuni rurali scarsamente popolati”, evidenzia ancora lo studio.
La provincia di Brescia insieme a quelle di Cremona e Mantova valgono il 70% di tutta la produzione di Grana Padano: secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, Cremona è una delle città con la peggiore qualità dell’aria del continente. Stonano questi dati con le parole di Renato Zaghini, presidente del Consorzio di tutela del Grana Padano, che in un’intervista all’Italpress in occasione di Cibus 2024 (a maggio di quest’anno) ha detto: “Abbiamo da sempre a cuore temi quali la transizione, la sostenibilità, l’ecologia: siamo un prodotto del territorio, del territorio noi viviamo”.
Di Simine sottolinea che si è arrivati “a questo perché la Lombardia ha saputo mettere a valore la propria specializzazione produttiva, figlia di un passato in cui si produceva fieno in larga quantità”. Una vocazione zootecnica “oggi trasformata in chiave industriale, con le vacche che mangiano principalmente concentrati, con mangimi di soia e di mais”. Per fare un passo indietro, Legambiente propone di tornare a legare l’agricoltura al territorio, ma non nel senso identitario e sovranista del ministro Francesco Lollobrigida. “Come accoglieresti un Chianti Docg fatto con uve sudafricane? -sottolinea Di Simine-. Quando compriamo il Grana Padano o un prosciutto di Parma stiamo acquistando ‘proteine’ che nascono da soia in larga parte importata, che è quasi tutta Ogm, tranne quella biologica. Made in Italy non significa semplicemente che devi allevare o ingrassare l’animale in Italia. Dobbiamo ripartire dai terreni a disposizione, ridurre le densità di animali. È il paradigma già attraversato del vino: diminuire la produzione aumentando la qualità”. Secondo Di Simine il latte trasformato in Grana Padano non giustifica il prezzo riconosciuto dai trasformatori, che arriva a 70 centesimi di euro al litro. Una profonda distorsione del mercato (il prezzo medio infatti è di 0,50 euro/litro) che non permette di leggere con chiarezza quanto sia fragile il “sistema Grana”.
Il tipo di alimentazione garantisce infatti un quadro aromatico povero, perché quei bovini non sono alimentati con erba e fieno. Massimo Tomasoni, titolare del Biocaseificio Tomasoni di Gottolengo (BS), spiega che cosa è successo negli ultimi decenni. “L’insilato di mais, cioè il mais trinciato verde e conservato nei silos senza contatto con l’ossigeno, è un alimento molto gustoso ed è alla base dell’alimentazione delle mucche per la produzione di latte destinato ai caseifici che producono Grana Padano. Oltre ad essere apprezzato dalle mucche, ne aumenta la produttività. Nel biologico non è vietato ma non possiamo utilizzarlo per via della fermentazione che viene trascinata nel latte e nel formaggio stesso”. Significa che la razione a base di insilati porta anche rischi di fermentazione per il formaggio in stagionatura. Se ciò avviene, le forme di Grana si gonfiano e non sono più commercializzabili. Nella produzione del Grana Padano convenzionale si fa ricorso al lisozima, un enzima (proteina naturale) ammesso nel disciplinare di produzione, ma vietato dal biologico e non ammesso in quelli di Parmigiano Reggiano e Trentingrana. Tomasoni non ne ha bisogno. Il suo latte arriva da aziende che allevano secondo il disciplinare Latte Fieno, quindi alimentate esclusivamente da erba, leguminose, cereali e fieno, senza l’utilizzo di alimenti fermentati e la somministrazione di mangimi Ogm. Ovviamente anche a scapito della resa lattea (ogni vacca arriva a malapena a 25 litri di latte prodotto al dì).
Il Consiglio regionale lombardo è al corrente di tutto. A fine gennaio di quest’anno presso la commissione consiliare “Ambiente, energia e clima, protezione civile” sono stati presentati i risultati della Missione valutativa “Politiche per contrastare l’inquinamento atmosferico da fonte agricola”: “La riduzione e la riconversione delle attività economiche è un passaggio che non può essere evitato”, sono le conclusioni.
A presentarla è stata la professoressa Gloria Regonini del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano: “È in corso un’emergenza sanitaria importante e grave”, dice ad Altreconomia. La consapevolezza è diffusa: un articolo pubblicato a settembre 2023 da alcuni funzionari e dirigenti dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale e del Dipartimento che si occupa di qualità dell’aria e clima in Regione Lombardia offre un dato relativo alla riduzione dei fattori di emissione per portare la qualità dell’aria entro i valori limite stabiliti dall’Oms. Si parla del 47% per le vacche da latte e del 68% per i suini.
Il paper calcola gli effetti di un’applicazione delle migliori tecniche di abbattimento delle emissioni, ma forse non è solo tecnologica la soluzione da ricercare, anche se -specifica Aleluia Reis- “non è detto che l’unico strumento per ridurre queste emissioni sia la decrescita dell’intensità agricola”. Resta, però, il problema del volume immenso di deiezioni che producono azoto che finisce nei campi. “Un nutriente fondamentale per i terreni agricoli diventa un rifiuto e crea gravi problemi collettivi -spiega Di Simine-. Succede specialmente in inverno, quando gli allevatori sono costretti a gestire grandi quantità di liquami, ma nei campi non ci sono colture in grado di assorbire tutto l’azoto in essi contenuto. Le buone pratiche, come l’interramento immediato dei liquami, possono ridurre le emissioni atmosferiche, ma le molecole azotate non spariscono sottoterra, finiscono nelle falde causando inquinamento da nitrati delle acque. Una riduzione del numero di animali è dunque necessaria in ogni caso”. E per affrontare il tema alla radice serve comunque cambiare la loro alimentazione: “La ‘razione’ non è più filamentosa e la consistenza delle deiezioni è un problema. C’era già negli anni Novanta. Mio padre -racconta Massimo Tomasoni-, mi diceva che quando era giovane in stalla sentiva dei ‘plof’, mentre adesso devi stare attento perché ti schizzano addosso”.
Rettifica del 3 giugno 2024: il virgolettato di Massimo Tomasoni riferito all’insilato di mais è stato modificato nella versione online dell’articolo precisando meglio il concetto espresso e rimuovendo passaggi non correttamente interpretati dall’autore dell’inchiesta. La redazione
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