Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Ambiente / Attualità

È finito il tempo degli allevamenti senza terra

© Greenpeace

Serve una moratoria e il via alla conversione ecologica, per ridurre emissioni climalteranti ed effetti nocivi sulla qualità dell’aria. Una proposta di legge di Greenpeace Italia, Isde, Lipu, Terra! e Wwf. Sei gli articoli, compreso quello che istituisce un Fondo per la riconversione. Perché così non è possibile andare avanti

Il titolo rende abbastanza esplicito l’obiettivo della proposta di legge presentata alla Camera il 22 febbraio, promossa da Greenpeace Italia, Isde, Lipu, Terra! e Wwf: “Oltre gli allevamenti intensivi. Per una transizione agro-ecologica della zootecnia”.

Gli articoli sono sei, compreso quello che istituisce un Fondo per la riconversione, perché così non è possibile andare avanti: l’enorme numero di animali allevati in modo intensivo nel nostro Paese, più di 700 milioni all’anno, principalmente bovini, suini, polli, galline ovaiole e tacchini, richiede un grande uso di risorse, che spesso sono sottratte -anche in modo indiretto- al consumo diretto umano. Due terzi dei cereali commercializzati nell’Unione europea diventano infatti mangime e circa il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale, anche a coltivazioni come il mais che richiedono tantissima acqua, una risorsa sempre più scarsa.

Eppure la politica fatica a comprendere l’importanza di un controllo a trecentosessanta gradi su questo comparto industriale. A luglio 2023, ad esempio, la Commissione europea riformando la Direttiva emissioni ha evitato una stretta su quelle degli allevamenti intensivi, anche su pressione dell’Italia. E questo nonostante le emissioni climalteranti (il comparto pesa tra il 70% e il 75% delle emissioni dell’agricoltura, che a sua volta vale quasi l’8% del totale secondo l’inventario delle emissioni di gas serra disponibile sul portale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ed elaborato dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente) e le emissioni di ammoniaca (il settore zootecnico è responsabile di oltre due terzi delle emissioni nazionali: 274mila tonnellate sulle circa 345mila imputabili all’intero settore agricolo), che causano l’inquinamento da polveri fini, in particolare il PM2.5 che a febbraio ha annegato nello smog la Pianura Padana, l’inquinamento da azoto e suoi derivati nel terreno e nelle acque (l’Italia è sotto procedura di infrazione INFR 2018 – 2249 da parte della Commissione europea per il mancato adeguamento alla Direttiva nitrati).

La proposta di legge in questo contesto rappresenta una piccola rivoluzione, a partire dalla definizione di “allevamento intensivo”, che prima non c’era. Ed è a partire dall’articolo 3 che, in accordo con la definizione di “agricoltura intensiva”, fornita dall’Agenzia europea per l’ambiente, al criterio della densità si accompagna quello dell’intensità di input esterni, in particolare per quanto riguarda la quota proteica dell’alimentazione animale, arrivando a definire alcune caratteristiche comuni agli allevamenti “senza terra”, che utilizzano mangimi provenienti da coltivazioni molto distanti, che nel caso delle proteine offerte principalmente dalla soia arrivano quasi integralmente da Brasile, Argentina e Stati Uniti. Oltre a queste indicazioni, è definito intensivo anche quell’allevamento “che non preveda l’accesso all’aperto continuo e volontario da parte degli animali”.

La zootecnia intensiva fatica a contemplare il benessere animale. Secondo i promotori del progetto di legge, inoltre, può essere economicamente vantaggiosa per le aziende grandi e molto grandi, ma la sua elevata dipendenza da input esterni (dall’energia ai mangimi fino all’acqua) la rende particolarmente fragile, così come le condizioni di allevamento che prevede tanti, tantissimi animali geneticamente simili rinchiusi in spazi ristretti, la rende vulnerabile alle sempre più frequenti epidemie e in ogni caso dipendenti da prodotti farmaceutici.
“Ridurre il numero di animali allevati in modo intensivo -spiegano i promotori- permetterebbe di liberare risorse per produrre cibo direttamente consumabile dalle persone, con un uso più efficiente delle risorse stesse: secondo stime della Fao e dell’Oms, un ettaro coltivato a cereali fornisce cinque volte più proteine di un ettaro destinato alla produzione di mangimi per l’allevamento da carne, mentre i legumi ne forniscono dieci volte di più”.

Inoltre, precisano, “si tratta di una normativa che offre agli allevatori, soprattutto ai più piccoli, costretti a produrre sempre di più con margini di guadagno sempre più bassi, una via d’uscita che tuteli il nostro futuro e quello del Pianeta”. La proposta contiene appunto un piano nazionale basato su un adeguato sostegno pubblico per la riconversione in chiave agro-ecologica degli allevamenti intensivi, in modo tale da attuare gli articoli 9 e 41 della Costituzione, che definiscono la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, disciplinando anche i modi e le forme di tutela degli animali e garantendo che l’iniziativa economica sia libera senza che questa arrechi danni alla salute e all’ambiente. La proposta di legge contiene anche una “moratoria”, cioè il divieto al rilascio di nuove autorizzazioni per l’apertura di allevamenti intensivi, ma anche all’aumento del numero dei capi allevati negli allevamenti già esistenti.

Secondo Greenpeace, che sul proprio sito ha pubblicato una petizione a sostegno della proposta di legge, “allevamenti intensivi, deforestazione e inquinamento sono gli ingranaggi del sistema di produzione industriale del nostro cibo”, il cui sbocco naturale è la grande distribuzione organizzata, da cui la carne low-cost ma insostenibile finisce sulle tavole degli italiani, che negli ultimi sessant’anni ne hanno triplicato i consumi, passati da 25 a 80 chilogrammi pro-capite all’anno secondo il Wwf, che fino al 2 marzo ha promosso la “Settimana senza carne”. Nel nostro Paese, spiega l’associazione, “addirittura l’85% dei polli e oltre il 95% dei suini sono allevati intensivamente, e quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo libero”. È tempo di fermare tutto questo.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati