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Esteri / Reportage

Dieci anni di libertà. Reportage dalla piazza dei Martiri di Kobane, dove il futuro è incerto

Khanam e suo figlio celebrano il decimo anniversario della liberazione di Kobane nella piazza dei Martiri © Lidia Ginestra Giuffrida

Il mondo discute di una “nuova Siria” ma a Nord-Est di Damasco si è tornati indietro. Il presidente turco Erdogan ha schierato infatti mezzi di artiglieria pesante contro il simbolo della lotta all’Isis, bombardando senza sosta i nemici giurati del confederalismo democratico. “Non ci fidiamo di Al Jolani perché è la stessa persona di Al Nusra, che attaccò Kobane, che ha commesso i massacri della nostra gente”. Il racconto tra chi ha perso i propri cari e chiede pace e giustizia

Piange, guarda il cielo e sorride mentre abbraccia il figlio più piccolo, uno dei tre che le sono rimasti ancora in vita. Khanam ha quarantacinque anni e ha perso due figli durante la battaglia per la liberazione di Kobane. La sua unica figlia, invece, è diventata cieca a 25 anni a causa di un drone turco esplosole vicino mentre tornava a casa.

È il 26 gennaio 2025, il decimo anniversario della liberazione di Kobane, la città baluardo del confederalismo democratico, simbolo della resistenza popolare contro il fascismo e il fondamentalismo di Daesh. Al microfono qualcuno ripete “Resistenza”, mentre l’aria tutta intorno alle migliaia di persone nella piazza dei Martiri di Kobane è un miscuglio denso di gioia, rabbia e dolore.

Khanam si asciuga le lacrime e, con il viso scavato da ciò che non ha più, urla: “Voglio vendetta per mia figlia Barin. È diventata cieca a causa delle bombe di Erdogan. Oggi tutte le compagne di Barin stanno combattendo in prima linea. Voglio indietro il diritto di mia figlia, il diritto di vedere il mondo. Erdogan è il responsabile della cecità di mia figlia. Voglio giustizia, voglio che la Corte internazionale giudichi Erdogan anche per mia figlia”.

La ragazza è stata colpita mentre tornava da un presidio alla diga di Tishrin, sul fronte più caldo della Siria del Nord-Est, a circa quaranta chilometri da Kobane. È qui che da quando è caduto il regime di Bashar al-Assad, le milizie proxy turche combattono contro le forze democratiche siriane e le unità di protezione del popolo (Ypg) e delle donne (Ypj).

“Ogni giorno un convoglio di civili va a supportare i nostri combattenti -spiega Amira, anche lei in piazza dei Martiri- noi crediamo nelle Ypg e nelle Ypj, che ci hanno portato alla liberazione di Kobane. Noi come madri di Kobane non abbiamo armi ma supportiamo la resistenza con il cibo, lavando i vestiti, come abbiamo fatto dieci anni fa con chi ci stava proteggendo dall’Isis, così facciamo adesso con i nostri combattenti alla diga di Tishrin; la stessa battaglia che dieci anni fa si è combattuta a Kobane adesso si combatte alla diga”.

Con il caos generato dalla caduta del regime di Assad, infatti, la Turchia ha intensificato i suoi attacchi nel Kurdistan siriano, sia attraverso i mercenari dell’Esercito nazionale siriano sia tramite pesanti bombardamenti intorno a Kobane e nei pressi della diga Tishrin, punto strategico per la fornitura di acqua potabile e di elettricità a tutta la regione ma anche per l’accesso a Kobane. Se la diga dovesse cadere inonderebbe i villaggi intorno a Kobane, ma soprattutto renderebbe possibile l’avanzata dei turchi verso la città.

Tre dei figli di Amira, due ragazzi e una ragazza, sono morti combattendo. La figlia è stata uccisa nel 2011 nella stessa diga dove adesso si combatte per difendere Kobane dall’avanzata turca; ai tempi però non era l’Isis a minacciare la zona, ma gli uomini di Al Qaida, gli stessi che lo scorso 8 dicembre hanno liberato Damasco dal regime di Assad.

“Vado ogni giorno alle tombe dei miei due figli uccisi uno nel 2014 e l’altro nel 2017, entrambi combattendo. Mia figlia, invece, non ha un posto dove riposare e io non ho dove andarla a trovare. Gli uomini di Al Qaida non mi hanno mai dato indietro il suo corpo”, continua la donna mentre tutti intorno cantano.

Cristian, invece, ha perso il padre nel 2014. Ha 17 anni, gli occhi azzurrissimi che le illuminano il viso sotto l’hijab bianco e parla un inglese perfetto: “Sono di Kobane e mio padre è stato ucciso nel 2014, è un martire. Ho un fratello, lui è ancora vivo -racconta-, oggi sono così felice che siamo qui tutti insieme a Kobane e che ci sia così tanta gente a festeggiare. Voglio ringraziare tutti quelli che sono stati con noi fino alla liberazione”.

Leila di anni ne ha 48, anche lei è di Kobane ed è qui per celebrare gli uomini e le donne che li hanno liberati. “Le Ypj e le Ypg sono il nostro scudo umano, ci proteggono, se noi siamo ancora qui è grazie a loro. Senza di loro saremmo scomparsi, saremmo stati tutti ammazzati. Dal 2014 loro ci proteggono e lottano con noi per la libertà di tutti. Per la libertà delle donne -racconta-, ci hanno aiutati a rimanere, a restare in questa terra, perché l’attacco fascista di Daesh ci avrebbe disintegrati. L’Isis ci stava annientando, ma con il supporto dei nostri combattenti Kobane adesso è un paradiso. Ogni giorno quando prendiamo l’acqua sappiamo che è il sangue dei nostri martiri. Abbiamo sacrificato tanti dei nostri figli ma adesso abbiamo Kobane. La libertà per noi è il sangue dei nostri martiri”.

Najah sorride davanti alla telecamera, fa il segno della vittoria con le dita e comincia a ballare. La madre canta insieme a tutte le altre madri che le stanno intorno. Le donne qui si dicono tutte “madri di Kobane”. Nei ricordi di quando era piccola Najah ha un cumulo di macerie.

“Ho 14 anni, sono cresciuta con Kobane -dice-. Quando siamo tornati a vivere qui io avevo solo due anni e la città era un ammasso di macerie. Adesso dobbiamo liberarci dai turchi. Vogliamo una città in cui noi bambini possiamo andare a scuola, studiare in pace, senza più martiri. La libertà per me è essere al sicuro”.

Ma questo, oggi, non è un posto sicuro. E con il calare del sole la città si svuota. Alle cinque le celebrazioni sono già finite da un po’ e per le strade di Kobane ci si muove solo in macchina. Al di là di una porticina incastonata nella roccia alcune donne si preparano a fare il proprio turno di guardia in uno dei checkpoint della città.

Aisha ha 70 anni, una sigaretta in bocca e un fucile a tracolla. È una delle fondatrici delle unità di protezione delle donne. Ricorda benissimo la prima volta che vide un uomo di Daesh. “Era già stata liberata Kobane -racconta-, gli uomini dell’Isis si imboscarono nella città travestendosi con gli abiti militari delle Ypg. Io ero uscita per andare a fare la preghiera della mattina e ho sentito sparare. All’inizio non capivamo chi fosse, poi abbiamo capito che si trattava dell’Isis, allora ho preso le mie figlie per mano e ho iniziato a correre. Due uomini dell’Isis hanno cominciato a sparare e gli spari sono arrivati alle mie ginocchia. Siamo entrate in una casa e lì non riuscivo a pensare a niente, volevo solo scomparire. Ho bevuto un bicchiere d’acqua e sono rimasta accovacciata con la testa tra le gambe fino a quando non sono arrivati i compagni a salvarmi”, continua poggiando il fucile e accovacciandosi come quel giorno di dieci anni fa.

Con lei c’era anche Adla, che oggi ha preso il posto di Aisha perché a causa di un problema alle ginocchia lei non può più combattere tra le unità di difesa delle donne. Adla quel giorno era per strada con tre figli per mano e uno nel grembo, “forse è per questo che non mi hanno sparato”, dice.

Sabah, con il suo lungo vestito di velluto verde prende il fucile che ha dietro le spalle. È pronta per andare a presidiare il posto di blocco che c’è a pochi metri dalla casa dove si ritrova ogni sera con le sue compagne e le loro figlie. Lungo la strada adesso ci sono solo donne e uomini armati. Sabah si mette in postazione, fucile in spalla e torcia in mano. Mentre guarda dritto davanti a sé, in attesa che arrivi la prima macchina da controllare, dice senza voltarsi: “Non ci fidiamo di Al Jolani perché è la stessa persona di Al Nusra, che attaccò Kobane, che ha commesso i massacri della nostra gente. Noi ricordiamo ancora quando obbligava le donne a indossare il burqa. Se vuoi essere democratico devi lottare per la libertà ma noi abbiamo visto quello che hanno fatto a Manbij, hanno rapito e stuprato le donne. Le uniche forze che lottano per la libertà e la democrazia sono le forze democratiche siriane”.

Così su Kobane cala il silenzio, insieme alla notte arriva la paura per quello che sarà. In lontananza si sente il rumore di sporadiche esplosioni, mentre nel cielo volano i cacciabombardieri turchi. Sono dieci anni di libertà per Kobane e le sue donne, dieci anni di lotta e resistenza, e chissà quanti altri ancora ce ne vorranno.

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