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Esteri / Attualità

Le donne in Iran, la repressione turca e il doppio standard dell’Occidente

Il governo di Erdoğan è da tempo impegnato nel contrasto sanguinario dei movimenti femminili all’interno del Paese e in una campagna di omicidi mirati nei confronti di attiviste, esponenti politiche e militari curde in Siria e Iraq. Unione europea e Stati Uniti, però, non si espongono e tanto meno intervengono

Zhen, zhian, azadi”. “Donna, vita, libertà” è lo slogan che ha segnato fin dall’inizio le proteste scoppiate in Iran a seguito della morte di Mahsa Amini, la giovane 22enne deceduta mentre si trovava sotto la custodia della polizia religiosa di Teheran. Uno slogan che ha trovato spazio anche nelle piazze delle grandi città europee e nelle manifestazioni di sostegno alle donne e al popolo iraniano organizzate negli ultimi giorni e a cui hanno fatto da contraltare gli avvertimenti della classe politica. I governi dei Paesi dell’Unione europea infatti si sono detti pronti ad applicare nuove sanzioni contro il regime degli ayatollah, mentre gli Stati Uniti hanno allentato alcune restrizioni per aiutare le società tecnologiche iraniane a ripristinare internet, il cui accesso è stato limitato dalle autorità.

Eppure mentre l’Occidente si dimostra solidale con le donne dell’Iran e ne sostiene le rivendicazioni, continuano ad essere poche e deboli le parole di condanna pronunciate contro il governo turco, impegnato non solo a reprimere in patria i movimenti delle donne ma anche a colpire attiviste e politiche -per lo più curde- in Iraq e in Siria. Un esempio recente dell’attività persecutoria della Turchia è l’assassinio dell’accademica e giornalista Nagihan Akarsel, originaria del Kurdistan turco, e sul cui omicidio si estende l’ombra dei servizi segreti turchi, attivi anche in Iraq. Nella sua carriera giornalistica, Akarsel ha lavorato prima all’agenzia Diha, chiusa con un decreto governativo nel 2016, per poi dirigere la rivista Jineology ma il suo ruolo è stato determinante per lo sviluppo della jineolojî, quella “scienza delle donne” che è alla base del movimento di liberazione curdo e della rivoluzione del Rojava, la regione nel Nord-Est della Siria. L’omicidio di Nagihan Akarsel, avvenuto nella città irachena di Suleymaniyah, è però solo l’ultimo attacco contro le attiviste curde registrato nell’ultimo anno sul territorio iracheno e dietro cui ci sarebbero, secondo il movimento curdo, i servizi segreti turchi o soggetti a loro vicini. D’altronde Ankara continua ad avere mano libera nel Nord dell’Iraq, come dimostrano gli attacchi contro il Partito dei lavoratori curdo (Pkk) e la crescente presenza militare turca nell’area di confine.

Ma la situazione è ancora peggiore in territorio siriano: la Turchia continua a condurre attacchi mirati contro attiviste, esponenti politiche e comandanti donne del Rojava con l’obiettivo ultimo di indebolire la rivoluzione del Nord della Siria, eliminando personaggi di spicco e mandando un messaggio al resto della popolazione.

Attraverso questa serie di omicidi Ankara punta a dissuadere altri dal seguire la strada dell’impegno politico, lasciando chiaramente intendere che ciò significherebbe finire nella lista nera. D’altronde come riportato dal Rojava information center, nei primi cinque mesi del 2022 Ankara ha condotto almeno 47 attacchi con droni contro gli uomini e le donne del Rojava, uccidendo tra gli altri anche Rodin Ebdilqadir Mihemed, la co-presidente del comitato di difesa del cantone di Kobane, e le combattenti Roj Xabur, Barin Botan e Salwa Yusuf. Quest’ultima è stata tra le fondatrici dell’Unità di difesa femminile (Ypj), ha combattuto più volte contro l’Isis ed era una comandante di spicco delle Unità anti-terrorismo. L’uccisione di Salwa Yusuf è stata condannata persino dal Comando centrale delle forze Usa (Centcom) ma nel comunicato diffuso su Twitter non sono stati menzionati i responsabili del suo omicidio, per evitare ripercussioni nei rapporti con il governo turco.

I movimenti di liberazione delle donne sviluppatisi in Iraq e Siria sono dunque percepiti come una minaccia dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, che non esita a reprimere anche in patria quelle organizzazioni che lottano per i diritti delle donne, come dimostra il caso della Piattaforma contro il femminicidio. L’organizzazione, fondata nel 2010 in segno di protesta contro l’omicidio di una ragazza di 17 anni, è da mesi al centro di una controversa causa legale e rischia la chiusura per oltraggio alla moralità e perché rappresenterebbe una minaccia alla famiglia, intesa in senso strettamente tradizionale. La Piattaforma in realtà non fa altro che monitorare i casi di violenza contro le donne, offrire assistenza legale e pubblicare ogni mese i dati sui femminicidi nel Paese, un compito quest’ultimo che le autorità competenti hanno iniziato a svolgere solo tre anni fa dietro pressioni della società civile. Per Erdoğan però il lavoro dell’organizzazione femminista rappresenta una minaccia al modello di società patriarcale e tradizionalista da lui sostenuto e la cui preservazione è costata alla Turchia l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, il Trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Una scelta effettuata nonostante i 280 femminicidi del 2021 (a cui si accompagnano altre 217 morti sospette) e i quasi 200 registrati da gennaio 2022 a oggi.

L’uscita dalla Convenzione, così come il processo contro la Piattaforma, è stata fortemente criticata a livello europeo, ma alle periodiche condanne a mosse dall’Unione europea contro la Turchia sul rispetto dei diritti umani hanno fatto seguito finora ben poche azioni concrete, come sanno bene le donne turche. O ancora di più quelle in Iraq o in Siria, queste ultime prima esaltate dalla stampa occidentale durante la guerra contro l’Isis ma ben presto dimenticate. Per tutte loro non ci sono piazze ugualmente piena a inneggiare “donna, vita, libertà”, né governi pronti a sanzionare la Turchia per sostenerne le rivendicazioni.

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