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Cronaca di un agricidio: la distruzione delle terre palestinesi dopo il 7 ottobre
Dopo il 7 ottobre il processo in atto di devastazione e appropriazione dei terreni ha subito un’impennata. Non solo a Gaza. L’oleocoltura e il pascolo, il primo mezzo di sussistenza in Cisgiordania, sono bersaglio dell’esercito e dei coloni. Molti campi non sono più curati e le stagioni future compromesse. Nella Striscia intanto l’esercito ha già distrutto più della metà delle terre. Le voci e le testimonianze dai Territori occupati
“Se guardassimo al lato economico, la scelta più conveniente sarebbe quella di lasciare i raccolti nei campi”. Issa Al-Shatleh, amministratore delegato del Company of organic agriculture in Palestine (Coap), storica azienda ed ente certificatore che supporta i contadini palestinesi nella transizione al biologico, non è ottimista. Con quasi 30 anni di esperienza nel settore, nel suo ufficio a Ramallah, l’ingegnere di Beit Jala spiega di non aver mai visto un quadro così drammatico per lo stato di salute dell’agricoltura nella regione, responsabile da sola del 15% del Prodotto interno lordo (Pil) palestinese.
Negli ultimi undici mesi, accanto al massacro indiscriminato di Gaza e l’aumento dell’intensità delle operazioni militari in Cisgiordania, Israele ha imposto pesanti restrizioni ai palestinesi dei Territori occupati, tra cui il divieto per i lavoratori di entrare a Gerusalemme e in Israele, nonché l’annullamento delle autorizzazioni militari che consentono ai palestinesi l’accesso alle loro terre vicine agli insediamenti e alle barriere di separazione.
Già prima della grave crisi attuale, il settore agricolo palestinese affrontava sfide significative, tra cui l’accesso limitato all’acqua e alla terra, ostacolato da danni e confische, assieme a una burocrazia discriminatoria imposta dall’amministrazione militare israeliana sui territori occupati. Fattori resi strutturali e che vanno inevitabilmente a ripercuotersi sull’intera filiera di mercato. Con un reddito medio di circa 2.200 shekel mensili, poco più di 500 euro, le famiglie residenti in Cisgiordania sono spinte ad acquistare i prodotti più economici immessi da Tel Aviv sul mercato palestinese, israeliani o di importazione, rendendo difficile per i produttori locali competere.
“Questa situazione mette da sempre a dura prova la resilienza dei contadini -sottolinea Al-Shatleh-. Non riuscendo a coprire i costi di produzione, prima del 7 ottobre molti agricoltori preferivano abbandonare i campi per cercare lavoro negli insediamenti israeliani. Ora è cambiato tutto. Le persone disoccupate per sopravvivere ritornano a lavorare la terra ma il prezzo che devono pagare è sempre più alto”.
Secondo un report pubblicato a maggio dalla Banca mondiale, dopo il 7 ottobre più del 29% delle aziende in Cisgiordania ha ridotto o cessato la produzione. A ciò si aggiunge la revoca dei permessi di lavoro per 148mila pendolari e la perdita di 144mila posti di lavoro a causa di violenze e interruzioni nelle catene di approvvigionamento. Il trattenimento delle entrate fiscali palestinesi da parte del ministero delle Finanze israeliano, sottolinea il rapporto, sta inoltre minacciando il collasso imminente dell’Autorità di Ramallah.
Le conseguenze delle nuove limitazioni si sono fatte sentire immediatamente sulla raccolta delle olive, che i contadini palestinesi svolgono tra settembre e novembre, per poi influenzare capillarmente ogni ambito agricolo. I rapporti dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) rivelano che oltre 96mila dunum di uliveti sono rimasti incolti a causa delle violenze e delle restrizioni israeliane, causando perdite, riporta il Food security sector, un partenariato di decine di organizzazioni umanitarie e agenzie governative impegnate nella sicurezza alimentare, per oltre 1.200 tonnellate di olio d’oliva, pari a circa dieci milioni di dollari.
L’installazione di oltre 840 posti di blocco militari nei Territori occupati ha fatto poi aumentare sensibilmente i costi per il trasporto. “Prima del 7 ottobre, un viaggio dalla Valle del Giordano a Ramallah richiedeva un’ora e mezza, oggi, a causa delle deviazioni obbligatorie, se ne impiegano otto -sottolinea il presidente del Coap-. I contadini stanno perdendo denaro perché i costi di produzione superano i prezzi di vendita e non riescono ad accedere al mercato, compreso quello internazionale. Le autorità israeliane hanno diminuito le spedizioni internazionali e imposto una riduzione della capacità dei container palestinesi, ufficialmente per facilitare le ispezioni, con un aumento esponenziale del macero, provocando costi ancora maggiori e, conseguentemente, prezzi finali maggiorati, lontani anni luce dall’asse concorrenziale”.
Lo scorso maggio, una ricerca congiunta dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), e del Programma operativo delle Nazioni Unite per le applicazioni satellitari (Unosat), che fornisce immagini satellitari e analisi geospaziali per supportare operazioni umanitarie, di sviluppo e di gestione dei disastri, ha stimato che oltre il 57% delle terre coltivate nella Striscia di Gaza, pari a 8.660 ettari, è stato gravemente danneggiato o distrutto dai bombardamenti israeliani, in una situazione in cui più del 96% della popolazione della Striscia si trova ad affrontare livelli acuti di insicurezza alimentare.
“In questo contesto disperato, il lavoro delle organizzazioni contadine è cambiato radicalmente -spiega Nicola Manno, agroecologo e presidente dell’Ong Acs, che lavora da oltre 20 anni nella Striscia di Gaza-. I nostri partner del Palestinian agricultural relief committees (Parc), tra le più importanti organizzazioni palestinesi che lavorano per migliorare le condizioni socio-economiche delle comunità rurali e agricole, hanno svolto un ruolo cruciale coordinando, tra il resto, la distribuzione tra gli agricoltori locali. Hanno creato un ‘cartello etico’ che garantiva prezzi equi per ortaggi e frutta fresca, assicurando cibo accessibile ai residenti e impedendo il più possibile che finisse nelle mani di speculatori”.
Un intervento, sottolinea la Ong, che è stato possibile solo grazie alle donazioni popolari, dal momento che il governo italiano ha sospeso le linee di finanziamento per i progetti a Gaza, compresi quelli già approvati e relativi alla sicurezza alimentare. Tutto questo, mentre i raid aerei israeliani iniziavano a prendere di mira non solo infrastrutture agricole come serre e pozzi, ma anche fabbriche di trasformazione alimentare e altre strutture essenziali per la produzione e la distribuzione di cibo.
“Questi attacchi fanno parte di una strategia iniziata da molto tempo prima e che ora si trova nella sua fase più drammatica -afferma Yasmeen El-Hasan, responsabile dell’advocacy e della mobilitazione dell’Unione dei comitati di lavoro agricolo (Uawc), una delle più grandi organizzazioni agricole indipendenti fondata nel 1986 per supportare i contadini locali e la promozione dell’autodeterminazione alimentare-. La distruzione delle infrastrutture agricole e l’accesso limitato alle risorse naturali hanno lo scopo di portare le comunità allo stremo e forzarle all’esodo. Lo stanno dicendo chiaramente: chi non morirà per i bombardamenti non sarà nelle condizioni di sopravvivere poi”.
Dall’occupazione del 1967 agli accordi di Oslo del 1993, la violenza in Cisgiordania prosegue con ritmi inarrestabili. Il 2022 era stato decretato dalle Nazioni Unite come l’anno più mortale da quando, nel 2006, gli uffici del Palazzo di vetro avevano iniziato a registrare i numeri delle vittime: erano stati 151 i palestinesi uccisi dalle forze israeliane e dai coloni residenti negli insediamenti illegali. Dopo il 7 ottobre, questa cifra è stata superata nel giro di pochi giorni. Alla fine di agosto, l’esercito israeliano ha dato il via libera alla più importante operazione militare degli ultimi vent’anni. Città e campi profughi, invasi da centinaia di soldati, vengono attaccati con droni, mezzi militari e bulldozer. Ai residenti viene intimato di lasciare le proprie abitazioni.
“Gli attacchi contro le comunità palestinesi sono aumentati esponenzialmente, non solo in termini di quantità, ma anche di intensità e gravità”, spiega El-Hasan. Stando ai dati forniti dal ministero della Salute aggiornati al 31 agosto, dopo il 7 ottobre in Cisgiordania e Gerusalemme sono stati uccisi 676 palestinesi, tra cui 150 bambini e minori, oltre a 5.600 feriti.
Secondo l’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem, i coloni, sempre più armati grazie alla liberalizzazione delle licenze e la fornitura di armi da parte del governo di estrema destra, vedono la guerra a Gaza come un’opportunità sempre più concreta per costringere i palestinesi a lasciare i loro villaggi. Da ottobre, almeno 18 comunità palestinesi, più di mille persone, hanno dovuto abbandonare le loro case a causa delle violenze.
Dal 12 al 16 aprile oltre 1.500 coloni hanno messo in campo dei veri e propri pogrom contro più di 25 villaggi e comunità palestinesi. In questi attacchi, almeno cinque palestinesi sono rimasti uccisi e molti altri feriti. Le violenze hanno portato alla distruzione di 85 abitazioni, 11 serbatoi d’acqua, 185 veicoli e 20 rifugi per animali. Sono stati rubati circa 200 capi di bestiame e distrutti pollai e frantoi.
“Una tecnica comune dei coloni è quella di appiccare incendi, bruciando campi e alberi, ma anche case con persone all’interno, bambini compresi -denuncia ancora l’esponente del Uawc-. Anche in questo caso mirano soprattutto all’agricoltura, come parte dell’obiettivo più ampio di pulizia etnica e dell’impedimento della nostra sovranità, e quindi sicurezza, alimentare. Ora, più che mai -conclude- l’occupazione è responsabile dell’agricidio e dell’ecocidio delle nostre terre, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania”.
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