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“Crisi globali e affari di piombo”. Un saggio per comprendere l’industria della Difesa

© Filip Andrejevic, unsplash

La crisi ucraina ha riacceso l’attenzione dei media (e non solo) sul settore della Difesa. Il libro appena uscito per Edizioni Seb27 ne analizza le criticità e ricostruisce lo stretto rapporto tra l’industria bellica e i governi italiani che si sono succeduti dal 2015 al 2021

Con lo scoppio della guerra in Ucraina parole come “lanciarazzi”, “droni”, “obici” o “navi anfibie” sono entrate prepotentemente nel linguaggio quotidiano, rimbalzando da un media all’altro. Il lessico militare è diventato improvvisamente di uso comune, mentre la guerra si trasformava pian piano in uno scenario sempre più consueto tra una notizia sull’avanzata dell’esercito ucraino e una sull’ennesimo invio di materiale bellico a Kiev. Ma a più di sei mesi dall’inizio del conflitto quanto sappiamo realmente del mondo della Difesa e dei rapporti che intercorrono tra quest’ultimo e il governo italiano. Quanta consapevolezza abbiamo maturato sugli effetti che i prodotti dell’industria bellica hanno sulle aree del mondo verso cui sono esportate e quanto bene conosciamo gli obblighi che i Paesi (Italia compresa) devono rispettare quando decidono se vendere o meno un determinato armamento a un altro Stato?

A queste e ad altre domande prova a rispondere “Crisi globali e affari di piombo” -in libreria dal 2 settembre per i tipi di Edizioni Seb27- e con la prefazione di Alex Zanotelli. Il libro si prefissa due macro obiettivi: fornire al lettore una panoramica dell’industria italiana della Difesa e dei rapporti che questa intrattiene con gli esecutivi che si sono alternati al potere negli ultimi anni; spiegare quali sono le norme che regolano l’export di materiale bellico e quanto spesso queste vengano aggirate, con conseguenze negative sulla sicurezza della popolazione dei Paesi destinatari di armi e munizioni.

In questo modo si cerca anche di dimostrare quanto fuorviante sia l’idea che maggiori investimenti nel settore della Difesa corrispondano automaticamente a un aumento della sicurezza degli Stati e dei loro cittadini, come sempre più spesso affermano governi e aziende. Il protrarsi della guerra in Ucraina ha infatti alimentato una nuova corsa al riarmo e spinto i Paesi europei a incrementare la quota di spesa pubblica da destinare all’acquisto di sistemi d’arma, a tutto vantaggio delle aziende del settore. Il senso di insicurezza determinato dal conflitto e la necessità degli Stati di rimpinguare gli arsenali dopo aver inviato i propri armamenti all’esercito di Kiev hanno generato importanti introiti per le aziende della difesa, che hanno visto un aumento delle commissioni e degli acquisti dei propri prodotti.

Ma la narrazione secondo cui il rafforzamento della potenza militare corrisponda inequivocabilmente a una maggiore sicurezza interna e nell’area di riferimento non tiene conto delle lezioni del passato. La vendita di armamenti a Paesi coinvolti in conflitti -che a loro volta rivendono o cedono il materiale acquistato- ha finito con l’alimentare guerre e conflitti, contribuendo di conseguenza all’instabilità di diverse aree del mondo. Un’instabilità che si traduce anche nell’aumento delle migrazioni forzate (anche) verso un’Europa che per tutta risposta investe sempre più denaro pubblico nel rafforzamento delle frontiere esterne e nelle politiche di respingimento e di esternalizzazione. Garantendo al tempo stesso un ingente ritorno economico proprio a quelle aziende belliche che alimentano conflitti e tensioni.

Punto centrale di “Crisi globali e affari di piombo” resta però l’analisi dell’export di materiale militare autorizzato dall’Italia dal 2015 al 2021 e delle incongruenze tra le scelte politiche effettuate dai governi e le leggi che regolano questo tipo di esportazioni a livello tanto nazionale quanto internazionale. Nonostante specifici limiti imposti dalle norme, infatti, Roma continua a fornire materiale militare a Paesi in guerra e che violano i diritti umani sfruttando cavilli legali e zone grigie per fare affari con regimi autoritari o coinvolti in conflitti armati. In questo modo, l’Italia ha autorizzato esportazioni che avrebbe invece dovuto vietate e consentito anche il transito di materiale militare diretto in Arabia Saudita attraverso il porto di Genova, come denunciato più volte dai portuali del Collettivo autonomo (Calp).

L’analisi dell’export è dunque un passaggio necessario per comprendere quanto spesso i diritti umani e gli stessi principi della nostra Costituzione siano messi in secondo piano rispetto a logiche che prediligono il ritorno economico e il raggiungimento di obiettivi in politica estera. In questo modo è possibile anche comprendere cosa si nasconde dietro le esportazioni di materiale bellico, raccontate dal Governo e dalle imprese coinvolte come un successo del nostro Paese, ma che contribuiscono invece a generare instabilità e morte.

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