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Così le armi esportate dai Paesi europei causano milioni di sfollati

C’è un nesso forte tra commercio di armi e migrazioni forzate, e le ricadute degli affari condotti dagli Stati dell’Unione europea in zone di conflitto sono evidenti. La denuncia nel report “Smoking guns” a cura di Tni. Dalla Siria alla Turchia, fino alle motovedette italiane cedute alla Libia

© TNI

Le armi esportate dai Paesi dell’Unione europea verso il Nord Africa e il Medio Oriente costringono milioni di persone a lasciare le proprie case. L’industria degli armamenti, con enormi profitti, da un lato favorisce le migrazioni forzate e dall’altro investe sulla militarizzazione delle frontiere. La denuncia è contenuta nel report “Smoking guns” pubblicato a fine luglio 2021 dal centro di ricerca internazionale Transnational institute. “I richiedenti asilo -denunciano i ricercatori- seguono il percorso inverso delle armi che ne causano la partenza. L’Europa li percepisce come una minaccia e risponde militarizzando le strade che percorrono e i confini che tentano di attraversare”. 

Una ricerca innovativa che analizza cinque casi in cui viene ricostruito il percorso seguito delle armi, dal luogo di fabbricazione al Paese di destinazione, analizzando le connessioni tra il luogo di utilizzo e i casi di sfollamento forzato delle persone. Negli ultimi anni l’attenzione dei Paesi europei verso l’industria militare è cresciuta. Nel periodo compreso tra il 2015 e il 2019, i Paesi dell’Ue sono stati complessivamente il secondo fornitore di armi nel mondo dopo gli Stati Uniti, arrivando a coprire circa il 26% dell’export globale. Dal 2017 in avanti, l’ammontare delle vendite di armi europee a Paesi del Nord Africa e dell’Asia occidentale ha raggiunto i 35 miliardi di euro. “Il commercio di armi non sta solo causando spostamenti di massa -si legge nel report– ma è un’industria che tra profitto anche dalla militarizzazione dei confini per tenere al di fuori dei confini europei i migranti”. Si prevede che entro il 2025 il mercato della sicurezza delle frontiere avrà un valore compreso tra 65 e 68 miliardi di dollari. 

Il primo caso analizzato riguarda proprio l’Italia e la società Leonardo (già Finmeccanica).
Siamo nel Nord-Est della Siria, distretto di Afrin, nel gennaio 2018. Alcuni video documentano la presenza, nell’offensiva delle forze di terra turche chiamata operazione “Olive Branch”, degli elicotteri T-129 ATAK, di cui licenze e componenti sono prodotte in Italia dalla compagnia italiana partecipata dal ministero dell’Economia. L’anno successivo, nell’ottobre 2019, una seconda operazione al confine turco-siriana, denominata “Peace spring”, vede nuovamente coinvolti i velivoli a “marchio” italiano. A seguito della “Olive Branch”, secondo i dati delle Nazioni unite, tra il gennaio e il marzo 2018 sono stati 98mila gli sfollati, mentre nell’ottobre 2019, due settimane dopo gli attacchi aerei, almeno 180mila persone, di cui 80mila bambini, hanno abbandonato le proprie case. Dalle interviste svolte nei campi profughi in cui gli sfollati si sono rifugiati risulta che la maggioranza di loro dichiarava di essere partito per paura degli attacchi aerei in corso e futuri. Proprio nel 2018, secondo i dati della Relazione sull’export di armi presentato al Parlamento italiano ai sensi della legge 185 del 1990, la Turchia si era aggiudicata licenze per forniture militari per un totale di 362 milioni di euro, suddivisi in 70 autorizzazioni per diverse tipologie di armamenti. Tra queste troviamo 45 elicotteri d’attacco Aw-129 ATAK, quelli utilizzati durante le operazioni: un modello di velivolo fuori produzione, all’epoca, da Leonardo che però ha fornito i componenti e i servizi necessari per il loro funzionamento.

Il report analizza poi il ruolo delle armi europee nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) afflitta da uno dei conflitti più laceranti, con un numero di sfollati che supera quota cinque milioni di persone. Nel 2013 la Bulgaria ha fornito sei sistemi di artiglieria di grosso calibro, 860 mitragliatrici leggere e 300 lanciagranate alla polizia nazionale e all’esercito della Rdc; in quell’anno gli sfollati sono stati più di un milione. Lo stesso è accaduto nel 2017 quando, la Serbia ha esportato 920 fucili d’assalto e 114 mitragliatrici leggere di produzione bulgara. Nello stesso anno, nelle stesse zone in cui sono state utilizzate le armi europee, la regione del Nord Kivu, 532mila persone sono state obbligate a lasciare le loro abitazioni. Il paradosso è che tra il dicembre 2016 e il maggio 2017, le autorità dell’Unione europea vietavano l’ingresso sul territorio europeo a 14 ufficiali di Stato congolesi per il loro ruolo “nel contribuire ad ostacolare il processo elettorale e nelle connesse violazioni dei diritti umani”.

“Questo caso è emblematico -osservano i ricercatori- rispetto all’inutilità e inefficacia del meccanismo di monitoraggio e controllo esistenti nel commercio delle armi. Mentre l’Unione europea condannava le condotte degli ufficiali di Stato congolesi, le armi prodotte da Stati dell’Ue venivano esportate per equipaggiare gli stessi enti statali che impiegavano i funzionari sanzionati”.

La Bulgaria è coinvolta anche in un altro caso riguardante l’esportazione di tubi missilistici e razzi in Arabia Saudita e negli Stati Uniti finiti nelle mani dei combattenti dell’Isis in Iraq. Un tubo missilistico, prodotto dall’azienda bulgara di armamenti Vazovski Mashinostroitelni Zavodi (Vmz), è stato recuperato dalla polizia federale irachena durante la battaglia di Ramadi, svoltasi tra il 25 novembre 2015 e il 9 febbraio 2016. Le autorità bulgare hanno confermato di aver esportato il tubo il 12 dicembre 2015 al dipartimento della Difesa degli Stati Uniti attraverso la società statunitense Kiesler Police Supply. La licenza di esportazione era accompagnata da una clausola, rilasciata dal dipartimento stesso, in cui veniva specificato che le autorità americane sarebbero state l’utente finale dell’armamento in questione. Clausola non rispettata: l’armamento è finito in Iraq dove è stato fatto esplodere nella battaglia di Ramadi meno di 60 giorni dopo essere stato esportato dall’Europa, in violazione dei regolamenti europei. Lo stesso è successo ad un razzo da 73 millimetri di fabbricazione bulgara esportato in Arabia Saudita e recuperato nelle “mani” dei combattenti dell’Isis nella battaglia di Ramadi.

L’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) ha riferito che dall’aprile 2015, dopo lo scoppio del conflitto, oltre mezzo milione di persone sono state sfollate dalla provincia di Anbar, di cui Ramadi è la capitale, con più di 85mila sfollati solo nella metropoli tra novembre 2015 e febbraio 2016. La zona in cui sono finite le armi europee. In questo caso entra in gioco anche la fallacia delle clausole che obbligano il Paese acquirente a chiedere l’autorizzazione per la riesportazione. “Servono a prevenire -si legge nel report- che le armi finiscano nelle mani di terzi ma senza un monitoraggio e controlli adeguati, senza praticamente alcun meccanismo di responsabilità, è facile eludere i termini di questa regola, rendendo il commercio di armi un affare particolarmente torbido”.

Il report si concentra poi sull’accordo Italia-Libia. Almeno quattro motovedette italiane della classe Bigliani -oggetto di attenzione anche delle inchieste di Altreconomia– sono state donate alla Libia e utilizzate dalla cosiddetta guardia costiera di Tripoli per respingere e trattenere con la forza i migranti che fuggivano dalle coste. Una di queste è stata coinvolta in un’operazione di respingimento, nel novembre 2017, che ha coinvolto 47 persone: durante le operazioni 20 sono annegate Nel 2019, invece, le autorità libiche hanno montato una mitragliatrice su almeno una di queste barche per utilizzarla nel conflitto interno contro l’esercito nazionale libico. “Questo evidenzia come l’attrezzatura a doppio utilizzo, anche se venduta o donata per scopi civili, può trasformarsi rapidamente in un’arma letale”, osservano gli studiosi.

La conclusione dei ricercatori è chiara. “Il commercio di armi è una questione politica e finché non ci sarà un’adeguata risposta politica da parte dell’Ue e dei suoi Stati membri per affrontare realmente le sue conseguenze, continueremo a vedere i modelli di spostamento e sofferenza umana che questo rapporto ha documentato”. L’attuale regolamentazione viene descritta come “profondamente imperfetta, molto controversa e manchevole di adeguati meccanismi di monitoraggio, applicazione e responsabilità”. “L’Europa deve smettere di porre gli interessi economici al di sopra dei bisogni umani -concludono i ricercatori-modificando la sua gestione del fenomeno della migrazione e riconoscendo che le armi europee provocano spostamenti forzati e migrazioni”.

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