Diritti / Opinioni
Accordo con l’Egitto: se la polizia italiana rivendica il diritto di “sporcarsi le mani”
Dal marzo 2018 a fine 2019, la polizia di Stato ha coordinato i lavori di un centro di formazione internazionale sui flussi migratori con sede a Il Cairo, presso l’Accademia di polizia egiziana. Le politiche di contrasto al movimento delle persone hanno prevalso su tutto: sul caso di Giulio Regeni e anche sulla trasparenza. Gli atti del progetto di polizia “ITEPA”, infatti, non sono accessibili alla stampa. L’editoriale del direttore di Altreconomia, Duccio Facchini
Stando al capo della polizia di Stato, Franco Gabrielli, il suo è un “lavoro” in cui “c’è anche un tema di sporcarsi le mani”. Lo ha detto a fine novembre 2019, intervistato a margine della conferenza finale di un progetto di cui abbiamo già scritto sulle pagine di Altreconomia e che riguarda l’Egitto: il suo nome è “ITEPA”, ovvero “International Training at Egyptian Police Academy”. Si tratta di un “centro di formazione internazionale” sui flussi migratori rivolto a 360 funzionari di polizia e ufficiali di frontiera di 22 Paesi africani, insediato presso l’Accademia della polizia egiziana de Il Cairo.
Il nostro Paese ha coordinato le operazioni, stanziato le risorse necessarie (1,8 milioni di euro), bandito le gare. L’“intesa tecnica” tra la polizia italiana e quella egiziana risale al settembre 2017, l’inaugurazione del “centro” a Il Cairo al marzo 2018 mentre la “conferenza finale” di Roma al 26-27 novembre dell’anno appena trascorso.
Proprio allora, il prefetto Gabrielli ha risposto alle domande dei cronisti, concentrate soprattutto sulla “fama” dell’Accademia di polizia egiziana guidata da Ahmed Adel Elamry nel campo dei diritti umani e sull’opportunità di una simile partnership visto il buio pesto fatto calare dal regime del generale Abdel Fattah al-Sisi sull’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, commesso in Egitto tra gennaio e febbraio 2016. Di fronte agli interrogativi, il capo della polizia ha indossato i panni del pragmatico. Toccherebbe “sporcarsi le mani”, “esportare la nostra cultura giuridica”, perché “nessuno è così ingenuo da pensare che in questi Paesi saranno tutte rose e fiori” ma del resto “le grandi cose si costruiscono dalle piccole cose”. Di un “Aventino che pulisce le coscienze” ce ne si fa nulla. “Se domani un poliziotto italiano commette degli abusi -si è poi chiesto Gabrielli, retoricamente-, che faccio, chiudo le scuole di polizia?”.
La voce è quella di chi oggi si trova al vertice di un’istituzione che dopo il G8 di Genova nell’estate 2001 -per usare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza “Cestaro c. Italia” del 7 aprile 2015- si è “potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura” alla scuola Diaz-Pertini. Quel rifiuto -a proposito di “cultura giuridica”- ha fatto sì che quegli agenti non fossero “neanche oggetto di indagine”, restando “semplicemente impuniti”. Per non parlare poi della strenua opposizione messa in campo dalla polizia italiana contro l’introduzione di una legge sulla tortura in linea con le convenzioni internazionali in materia -il Parlamento ha licenziato un testo annacquato nel luglio di tre anni fa-. Ma ciò che colpisce delle parole di Gabrielli ha a che fare direttamente con il progetto “ITEPA”. Pochi giorni prima della conferenza finale, infatti, avendo seguito i lavori del centro di formazione fin dal principio, avevamo inoltrato un’istanza di accesso civico generalizzato presso la Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale per poter ottenere le carte del progetto. Tra queste, l’intesa tecnica di origine, i report e le relazioni conclusive, i risultati, il contenuto dei progetti di formazione, gli standard in tema di diritti umani eventualmente previsti. Per un mese il ministero dell’Interno ha preferito il silenzio, poi, sollecitato, ha opposto il diniego per ragioni di natura politica e formale. Del progetto tra le polizie di Italia ed Egitto, quindi, non si può sapere nulla. Forse perché nell’intesa tecnica (che abbiamo recuperato grazie ad altre fonti) il “pieno rispetto” e la “protezione dei diritti umani” sono stati stralciati dagli otto articoli e confinati genericamente nelle premesse?
Troppo facile sostenere di voler ambire alle “grandi cose” senza prima dar conto delle “piccole”. Questo non è pragmatismo, è scarsa trasparenza.
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